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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
08/04/2024
Elton John & Leon Russell
The Union
Lo stile unico di Elton John incontra le vibrazioni soul e la voce di Leon Russell. Un grande album a cavallo tra il Regno Unito e gli States, con la produzione eccellente di T Bone Burnett. Un’altra gemma da riscoprire.

«Molti anni orsono, nel 1970, Elton aprì con la sua band un mio concerto al Fillmore East di New York. Non si trattava ancora dell’Elton John di fama planetaria che è adesso. Dopo quella data non ci siamo parlati fino a poco tempo fa, quando una mattina ho ricevuto la sua telefonata dal Sudafrica, dove stava facendo un safari. La sua improvvisa voglia di fare un disco insieme mi ha subito colpito ed entusiasmato ed è così che è nato The Union. Gliene sarò grato per sempre».

Estratto dall’intervista a Leon Russell di telegraph.co.uk - ottobre 2010

 

Un disco a quattro mani, dove due vecchi amici si ritrovano a quasi quarant’anni di distanza. Dopo aver percorso strade differenti, comunque entrambi baciati, seppur in diverso modo, da celebrità e successo, Leon Russell e Elton John si ricongiungono per The Union. Una lontananza non dovuta a particolari motivi, semplicemente talvolta nella vita capita di viaggiare su binari paralleli che inaspettatamente si intersecano nuovamente creando qualcosa di speciale.

Davvero un album unico, The Union, nel quale l’intrigante mescolanza tra il suono americano e quello inglese svela come la canzone d’autore possa incrociare il gospel, il country e il soul offrendo quattordici brani di rara intensità e ispirazione, con i loro interpreti liberi di creare lontani da ogni imposizione commerciale, semplicemente per il gusto di ritrovarsi dopo parecchio tempo, dedicandosi agli stili e ai generi tanto amati senza alcuna restrizione. E nel momento in cui Elton percepisce nel suo profondo un’improvvisa esigenza di fare un disco con Leon per tornare a quell’epoca magica, quest’ultimo non esita nemmeno un attimo a condividere e rimembrare gli antichi sfarzi con il compare di una volta.

 

Il loro incontro è un vero e proprio scambio alla pari, frutto di mentalità aperte alla modernità e al cambiamento, ma con solide basi nella musica delle radici, dal blues allo spiritual, con un pizzico (ma solo un pizzico!) di nostalgia. Il pianista inglese regala un altro giro di riflettori a quello a stelle e strisce, in calo di celebrità in seguito ai fasti di Mad Dogs & Englishmen con Joe Cocker e il mitico Concert for Bangladesh in compagnia di George Harrison, Ravi Shankar, Bob Dylan ed Eric Clapton. A sua volta il buon Russell ricambia infarcendogli d’America profonda il sound. Ed è davvero così: The Union non rappresenta solo la collaborazione tra due musicisti immensi, ma incarna l’eccitazione di una fusione di due concezioni differenti a livello artistico, l’inglese e l’americana.

Elton e Leon cantano, suonano e scrivono insieme a Bernie Taupin mettendoci l’anima, fieri di stare “nudi” uno davanti all’altro, con la bellezza come unica meta. Una commistione di idee, pur nella diversità di stile e “spirito”, con la ciliegina sulla torta della produzione affidata a T Bone Burnett, uno che non sbaglia un colpo, e con uno stuolo di musicisti straordinari ad accompagnarli. Il materiale dal quale attinge The Union viene inciso dal vivo in studio a Los Angeles: sono trascorse solo tre settimane da un’operazione al cervello a cui si è sottoposto Russell, e le sedute di registrazione lo aiutano a recuperare confidenza e sciogliere i dubbi. Non solo il “genietto di Oklahoma” sa ancora suonare, comporre e cantare, ma sembra tornato ai vecchi tempi, quando il gospel e il rhythm and blues erano veraci, carnali e niente sembrava costruito a tavolino.

 

Un disco libero e grezzo, influenzato dalle sonorità antiche dei Rolling Stones dei primi anni Settanta e da quelle moderne di inizio secolo nuovo di Bob Dylan. L’opener “If It Wasn’t for Bad” sorprende subito per i cori black e l’arrangiamento straordinario dei fiati, mentre la seguente “Eight Hundred Dollar Shoes” dimostra come Elton sia ancora in grado di scrivere canzoni nel suo classico modo pure nel 2010, con la solita intensità dell’era di Tumbleweed Connection. Attorno a una sua tipica melodia, forse fin troppo familiare, irrompe a muovere le acque gettando un sassolino insolente l’istrionico Burnett, il quale costruisce un mondo di suoni discreti (con un sapiente uso di piatti, guitar fills e cori) perfetti per nobilitare la composizione retrò.

L’originalità non la fa sempre da padrona, ma è tutto ben congegnato e di primissima categoria. Basti pensare a “Hey Ahab”, con quel outro tra soul e gospel, in bilico tra elevazione e delirio. Una delle vette è sicuramente “Gone to Shiloh”, epica ballata sudista che rievoca una storica battaglia della guerra di Secessione. Il brano è sontuoso nell’arrangiamento, efficace per sonorità e melodia. Coinvolge fin dalle prime note grazie al sound iniziale di un pianoforte vintage, scovato dai tempi che furono, e poi giunge la voce di Leon a toccare le corde del cuore; tuttavia le sorprese non sono terminate, arriva anche, non si sa da dove e con notevole stupore, Neil Young, per portare il pezzo a livelli altissimi, creando qualcosa di indimenticabile, lontano da un semplice déjà vu.

Il duetto country di “Jimmy Rodgers’ Dream” è un’altra gemma nascosta in una tracklist azzeccata pure per l’accurata scelta dell’ordine delle canzoni. La seguente “There’s No Tomorrow” risulta “nera” più che mai, potente e “religiosa”, con tastiere démodé: ispirata da “Hymn No.5” del grande The Mighty Hannibal, include inoltre la chitarra sferragliante di uno degli ospiti illustri del lavoro, il re della pedal steel Robert Randolph. È proprio un disco magnificamente suonato, con altri special guest del calibro di Booker T. Jones e Marc Ribot, e sessionman di alta classe; la doppia batteria di Jim Keltner e Jay Bellerose e il basso acustico di Dennis Crouch contribuiscono a conferire ai brani una ritmica da southern rock, addolcita da ritornelli orecchiabili, tuttavia mai zuccherosi.

 

Come si può facilmente intuire, quindi, The Union è anche un lavoro di bellissime parti pianistiche, una sorta di sfida pacifica tra i due padroni di casa. “Monkey Suit”, costruita a partire da un loro boogie, è l’emblema di tale affermazione, e si prova la stessa sensazione in “The Best Part of the Day”, con un intrigante intreccio di organo e piano e un refrain corale a metà strada fra Allman Brothers Band e The Band. Sulla stessa falsariga, tra handclaps e pillole di Church music, imperversa anche “A Dream Come True”, influenzata da un’esibizione di Mahalia Jackson al Newport Jazz Festival riesumata da Burnett a inizio registrazione per spronare l’inventiva di Elton e Leon. Una composizione importante, che permette di rompere il ghiaccio e affiatare i due protagonisti.

L’opera si avvicina alla sua parte conclusiva con l’intensa “When Love is Dying”, una triste riflessione sull’epilogo di un amore che assume nel finale un significato più ampio: “C'è un dolore che non si può spiegare, ferisce così profondamente, sempre di più. L'ho sentito allora, lo sento adesso, ma nessuno mi ha detto come combattere un mondo di dolore. Qualcuno mi aiuti ora”. Un pezzo struggente aggraziato dalle armonie vocali di un personaggio inaspettato e mai scontato, lo straordinario Brian Wilson, memore e riconoscente per quanto avesse fatto per lui il buon Russell durante l’era top dei Beach Boys.

Un Russell ritrovato, che dopo un inizio sessioni giustamente approcciato in maniera un poco titubante prende una grande confidenza, tanto da passare con scioltezza dal piano elettrico al Grand Piano. Un artista rinato, il quale si mostra particolarmente a suo agio in quel piccolo capolavoro intitolato “I Should Have Sent Roses”, ove si insinuano con leggiadria il basso di Don Was e la chitarra di Doyle Bramhall II, e nei morbidi ritmi black di “Hearts Have Turned to Stone”. Il carismatico Elton John non è da meno nel trascinare con energia la poppeggiante “Never Too Old (To Hold Somebody)”. La conclusione è tutto farina del sacco di Leon, una commovente dedica all’amico ritrovato e un’onesta confessione riguardo alle sue debolezze e alle sue traversie di salute. Il cerchio si è chiuso, l’album termina con una nota di fragilità e pare di tornare a quell’epico tour insieme del 1970, a un tempo senza tempo.

 

Emozione e Commozione: dopo The Union la stella di Leon Russell torna a brillare come nei giorni migliori e nemmeno la sua scomparsa alcuni anni più avanti riesce a oscurarla. Rimane nella storia della musica questa scheggia di vita eterna, condivisa con un compagno d’eccezione, Elton John, la cui missione di rivitalizzare la carriera del leggendario pianista di Oklahoma ha raggiunto tutti gli obiettivi, arricchendo lui stesso infinitamente.