Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
REVIEWSLE RECENSIONI
The WAEVE
The WAEVE
2023  (Transgressive)
IL DISCO DELLA SETTIMANA INDIE ROCK ALTERNATIVE
8/10
all REVIEWS
06/03/2023
The WAEVE
The WAEVE
The WAEVE è il progetto di Graham Coxon (Blur) e Rose Elinor Dougall (ex The Pipettes). Incontratisi per caso durante un comune concerto, si sono parlati, annusati, scoperti simili e promessi di fare qualcosa insieme. The WAEVE è il loro disco, uno scontro tra due anime profonde e ispirate che hanno regalato al mondo una storia di equilibrio, buon gusto e lo-fi.

Il progetto The WAEVE è frutto della collaborazione tra il chitarrista dei Blur Graham Coxon e l’ex cantante delle Pipettes Rose Elinor Dougall. Due personaggi molto simili, artisticamente prolifici, di quelli che prendono una scintilla e ci fanno un braciere. Incontratisi per caso durante un concerto di beneficenza un paio di anni fa, si sono parlati, annusati, scoperti simili e ripromessi di fare qualcosa insieme (successivamente i due hanno iniziato a frequentarsi e hanno avuto una bambina insieme).

Poteva finire lì, come una cosa detta ma non mantenuta. E invece dopo qualche giorno hanno cominciato a scriversi, scambiarsi canzoni di altri da cui partire, fino ad arrivare a qualche frammento di musica nuova. I primi a rimanere sorpresi dalla bontà delle loro idee sono stati proprio Graham e Rose, che hanno messo mano alle loro agende e si sono chiusi in studio per scrivere e chiudere il lavoro. E così è stato. Il risultato – ve lo anticipo – è pregevole, con le due voci che si alternano e intrecciano, sempre rispettando un equilibrio indecifrabile, tra il buon gusto e il lo-fi, ma comunque dotato di un sapore unico, inequivocabilmente loro.

Ad accogliere l’ascoltatore all’inizio di questo viaggio ci sono frequenze marmoree e vibranti, che danno l’impressione che tutto passi attraverso l’effetto di un bianco tremolo: basso, rullante, il fine suono appuntito del ride. Soltanto gli accordi di piano sembrano risparmiati da questa frammentazione sonora sublime. Un contesto sonoro che richiama la regia di David Lynch: in senso cinematografico, per come siamo abituati a vedere le sue immagini scivolare nel suono, ma anche in senso discografico, per chi conoscesse il suo importante contributo al disco Dark Night of the Soul di Danger Mouse e Sparklehorse. La voce dolce di Rose Elinor Dougall fa il resto, e completa l’immagine in maniera divina, collegandosi a quegli accordi di piano puri e belli in mezzo a quel mondo da cui tutto è partito.

L’opening “Can I Call You” ha un inizio davvero notevole, dove l’introduzione sonora di lynchana memoria lascia spazio a un repentino cambio di mondo, efficace forse più nel presentare gli ingredienti ritmici e sonori del resto dell’album che per la reale bellezza armonica. Drum machine (o comunque ritmo di ispirazione sintetica) dal timbro chiuso, semplice e ovattato che dialoga con dei suoni di sax armonizzati suonati dallo stesso Coxon. Nonostante personalmente non abbia mai provato amore per uno strumento che armonizza con se stesso, per il sapore vicinissimo di due suoni prodotti dalla stessa identica fonte, in questo caso l’effetto è positivo, e il gusto di Coxon prende il sopravvento.

La seconda traccia ha un ritmo decisamente più beat, intersecato a un sapore straniante: un basso fuzz che ritmicamente fa le veci di quella che fu la chitarra della bluriana “Beetlebum”, unito a una fusione di suoni sintetici e rumoristici di sassofono, che gettano le basi per un terreno ricco di interesse quanto di disagio. Non un gran sapore, a mio avviso, nonostante la bontà della scrittura.

La bellezza torna a farla da padrona nella successiva “Over and Over”, una ballad sofficemente pinkfloydiana grazie all’armonia che chiude il ritornello e a quei suoni di fusti inconfondibili che fanno venire in mente il Nick Mason del Live at Pompeii, oltre che a delle pause che fanno sospettare un imminente finale di canzone, facendo sperare ogni volta che non accada, per permettere che continui almeno un altro po’.

Quando poi quel momento arriva sul serio e il brano termina, ci pensa “Sleepwalking” a prendersi lo scettro di canzone dell’album. Sono ritmo, accordi e voci che respirano quando possono e si lasciano osservare in questo miracolo sonoro in cui spiccano gli archi dell’Elysian Quartet, che saranno poi frequenti nel resto del disco. E quando pensi di aver sentito tutto, parte la seconda sezione del pezzo. Più che dall’alternarsi di strofa e ritornello, infatti, questo disco è formato da idee diverse che si susseguono, quasi a voler chiarire il metodo di scrittura dato dall’intrecciarsi dei due compositori. Ecco quindi che spunta dal nulla una linea di basso miracolosa, che fa pensare a “It’s My Life” dei Talk Talk. È la conferma di quanto avevo letto, cioè che tra le varie references sonore che si sono scambiati Graham e Rose “annusandosi e ispirandosi a distanza” c’era proprio il fantastico gruppo di Mark Hollis. Questo cosa mi piace, mi fa capire la loro ispirazione e i frutti della loro alchimia; sono un duo ben amalgamato, che scrive sapendo andare a fondo, non lasciando niente in sospeso. Sarà un caso, ma questa canzone contiene anche un solo di chitarra di Coxon che fa stare bene.

“You’re brought up to be disappointed_Always ready to leave, when it’s counted”

“Drowning” continua la pulsazione emozionale, sfruttando il coinvolgimento di un tema in 6/8 e lasciandolo amalgamare dal perfetto timbro di Rose, fino al momento in cui l’arrangiamento di archi e il suono chitarristico di Graham portano il brano verso un meraviglioso punto di niente, in cui la canzone non può che fermarsi e ripartire. Poi le voci si uniscono, chiudono su una frase che punta verso il cielo e cantano insieme, accompagnate da un sax nitido che fa quasi sentire all’ascoltatore il sapore della condensa sull’ottone.

“Hold on to me as the waters rise_Drowning again”

“Someone Up There” è invece uno sfrontato e trasandato omaggio al punk, in questo caso al femminile, vista la vocalità di Rose. Vengono subito in mente le L7 fuse con i primi Smashing Pumpkins, vista l’acidità della chitarra di Coxon, che interviene per chiudere il brano in maniera sfrontata, come piace a noi che lo conosciamo. Segue “All Along”, che al contrario è dolce e silenziosa, poggiata sulle corde di un’acustica che mi immagino suonata da lei, anche se online ho trovato solo video di concerti in cui la suona Coxon. Chissà com’è andata veramente in studio...

“Undine” si presenta come una outsider. Mi aspetto qualcosa di importante e non so se sia dovuto al punto dell’album in cui si trova (siamo arrivai all’ottava traccia), alla mia esigenza di ascolto data da sensazioni consequenziali o a un più romantico sesto senso. Fatto sta che questa canzone mi piace, scorre senza miracoli ma possiede un potere attrattivo che è un gran bene, anche se sfiora il pacchiano con quel sassofono che suona all’eccesso, quasi giocando a far innervosire la voce di Rose, spalleggiato da un arpeggiatore che ricorda l’ormai abusato Yamaha DX-7 tornato in voga grazie a Stranger Things. A metà canzone si assiste a un passaggio di consegne vocale: quando Dougall cede la staffetta a Coxon, il brano da ballad di stampo floydiano diventa un pezzo felicemente ispirato a Neil Young.

“I’ll come with you_To thee deepest realms of blue_We’ll suffer no more now_(…)Forever”

Un lento arpeggio – che non saprei dire se eseguito su di un basso dal suono magro e “chitarroso” oppure da una chitarra molle e “bassosa” – introduce alla successiva “Alone and Free”, che spicca presto per una bellissima armonia della strofa e per gli arrangiamenti sintetici, forse stavolta non ben sostenuti dagli archi e dalla loro didascalica apertura nel ritornello e nella coda. La mia è una valutazione del tutto personale, ovviamente, probabilmente accentuata dal fatto che in fase di missaggio sono stati posizionati troppo in primo piano, arrivando a farli percepire come troppo scollati dal resto proprio nel momento cruciale della canzone.

E a proposito di questo, è doveroso parlare di James Ford, l’eroe nascosto di questo disco. Oltre che a essersi occupato del missaggio e della produzione (quest’ultima in collaborazione con gli stessi Coxon e Dougall), ha suonato anche imprecisati additional instruments, cosa che lo rende protagonista di tante delle sensazioni evocate fin qui.

Tocca alla bella e terzinata ballad “You’re All I Want to Know” chiudere le danze. Lo fa in maniera forse classica e fin troppo prevedibile, ma bisogna ammettere che la canzone rappresenta la summa di tutto ciò che abbiamo sentito in precedenza, dall’alternanza perfetta e curata delle voci (sembra di ascoltare uno standard) all’immancabile piano che ricama, dagli archi che spingono nel momento giusto al solo di chitarra, fino ai sassofoni che rendono immortale il finale. Certo, sentire Graham Coxon, con quel suo suono, prestarsi alla causa e tenere una chitarra sul secondo e sul quarto accento, fa l’effetto di vederlo ballare, di sentirsi prendere per mano nell’armonia quadrata e giusta di una coda in cui il mix sposta ed elimina gli ingredienti, fino a farci mancare il fiato. Un effetto davvero meraviglioso.

Insomma, The WAEVE è un disco bellissimo, un incontro/scontro tra due anime profonde e ispirate, che avevano scritto nel loro destino di doversi trovare in un camerino londinese, per annusarsi, promettersi, pensarsi e infine ispirarsi. Il fatto che abbiano realizzato un album – per quanto pregevole –, a questo punto quasi non conta, vista la sacralità e la speranza regalate da un semplicissimo atto dimenticato come quello di incontrarsi per caso e regalare una storia.