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REVIEWSLE RECENSIONI
14/12/2021
Courtney Barnett
Things Take Time, Take Time
Il terzo album della cantautrice australiana Courtney Barnett rappresenta il suo lavoro più maturo e convincente.

Uno dei grossi problemi che abbiamo con questa narrazione sempre più appiattita sul contemporaneo è che si tende a non far più a far crescere un artista, a dargli tempo sufficiente a sviluppare un percorso. Il caso di Courtney Barnett risente probabilmente anche di un sovraccarico di uscite, per cui se un disco non fa il botto dopo dieci minuti che è fuori, verrà inesorabilmente dimenticato.

Dico tutto questo perché mi ha incuriosito sentire i continui paragoni che vengono portati avanti in questi giorni tra il nuovo Things Take Time, Take Time e l’esordio Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit datato 2016. È un ritornello che è stato ripetuto anche nel 2018 col sophomore Tell Me How You Really Feel ma se pensiamo che c’è pure gente che sostiene che i primi due EP fossero inarrivabili, allora forse direi che, pur nel sacrosanto rispetto delle opinioni di tutti, abbiamo anche un serio problema di impostazione mentale.

Detto questo, il terzo album della cantautrice australiana rappresenta a mio parere il suo lavoro più maturo e convincente. Se effettivamente la scrittura del suo predecessore appariva un po’ standardizzata e, pur nel livello complessivo più che discreto, non c’era nessun episodio che spiccasse, questa volta mi pare che abbia fatto centro in tutto e per tutto.

Il cammino verso il disco è stato segnato dalle ormai fin troppo diffuse difficoltà psicologiche che sembrano affliggere i musicisti (e non solo) in questi ultimi anni: un altro, triste segno dei tempi che la pandemia ha solo maggiormente messo in risalto. C’è stato un tour americano a inizio 2020, con una condizione già vicinissima al burn out, una stanchezza della vita che la quarantena ha acuito in maniera esponenziale rendendola preda di un sovraccarico di dolore e tristezza, come lei stessa ha spiegato. È stato un suo amico a salvarla: le ha esplicitamente chiesto di scrivere una lista di cose che avrebbe voluto fare nel prossimo futuro, un tentativo semplice di ravvivarle la speranza e che, contro ogni previsione, ha riscosso successo.

“Write a List of Things to Look Forward To”, un bel brano allegro e scoppiettante con quelle chitarre piacevolmente Lo Fi a cui ci ha da sempre abituato, non è solo uno degli episodi migliori del disco ma ha costituito anche il punto di partenza della sua rinascita come persona: “And so it goes/I’m looking forward to the next letter that I’m gonna get from you” canta nel ritornello, dandoci l’impressione di essersi totalmente riconnessa col proprio sé.

Things Take Time, Take Time lo ha realizzato tutto da sola, con il solo aiuto dell’amica Stella Mozgawa, che aveva già suonato con lei in un paio di brani del disco realizzato assieme a Kurt Vile. La batterista delle Warpaint, una delle migliori nel suo ruolo attualmente in circolazione, limita però il suo drumming ad un lavoro strettamente essenziale, mettendosi al servizio di canzoni che, come sempre nel lavoro di Courtney Barnett, hanno nell’impronta scarna e minimale del suono il loro punto di maggiore riconoscibilità.

Meno ruvido ed istintivo rispetto all’esordio e molto più variegato rispetto al precedente, questo terzo capitolo della sua discografia è forse il suo più positivo, quello dove si respira un’atmosfera maggiormente spensierata. Difficile in effetti ignorare il senso liberatorio dell’opener “Rae Street”, con la sua strofa a la Pavement e il ritornello che è forse la cosa più Pop che abbia mai scritto. Oppure le suggestioni primaverili di “Turning Green”, costruita attorno ad una drum machine presa in prestito dallo studio dei Wilco ed ispirata al cambio di stagione osservato dalle finestre del suo nuovo appartamento (cambiare casa è stato per lei un altro grande passo verso la normalità); c’è anche un lungo solo di chitarra, in questo brano, omaggio affettuoso a quell’estetica Slacker da cui ha preso le mosse e che, seppur meno presente in maniera esplicita, aleggia lo stesso qua e là nelle sue composizioni.

Molto bella anche “Sunfair Sundown”, col suo tono indolente ma anche in un certo modo ironico; e poi le più incalzanti “Here’s the Thing” e “Take It Day By Day”, la carezza vellutata di “Before You Gotta Go” e la ballata “If I Don’t Hear From You Tonight”, forse la composizione più intima che la ragazza australiana abbia mai realizzato.

Non è un capolavoro (ma del resto lei non ha mai avuto la pretesa di scriverne) ma è un disco che conferma come tutte le parole buone che si sono spese su di lei non siano affatto andate perdute. Un’artista matura, che è bello vedere crescere disco dopo disco, abbandonando, nelle nostre analisi, senza perdersi in troppe elucubrazioni sul “mito delle origini”.