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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
24/06/2019
Il Mare ben temperato.
Tre visioni alla ricerca di sé stessi.
Questo pezzo è stato chiuso nel giorno dei quarant’anni dalla pubblicazione di “Unknown Pleasures” dei Joy Division. Il mio pensiero, allora, va a Ian Curtis e a tutti quelli che, come scriveva, David Foster Wallace, si sono lasciati inghiottire dalla “cosa brutta”.

A mio fratello e ai nostri ascolti musicali notturni.

 

“E il naufragar m’è dolce in questo mare”

Giacomo Leopardi, L’Infinito

 

“1983: A merman I should turn to be”

(dall’album: Electric Ladyland)

James Marshall Hendrix

 

 

Vision one: when I was a child.

Rumore di onde. Impetuose.

E il suono di un richiamo.

Mi capita spesso di pensare all’impronta musicale che queste onde hanno lasciato dentro di me fin da quando ero piccolo. Questo frangersi ciclico, inarrestabile e sempre diverso nel suo ripetersi. La mente torna ad un periodo in cui la portata delle situazioni in cui ci si trova immersi non è chiara; si ricevono degli input che fanno percepire l’appartenenza a qualcosa di più grande.

Quando ero ragazzo c’era il momento dell’ascolto musicale notturno, come se quella dimensione rappresentasse un distacco o quanto meno un modo per proteggersi dagli eventi della giornata. A quell’età la mente non è ancora in grado di elaborare l’esatto orizzonte degli eventi, ma quelle onde rimandano costantemente a qualcosa di primigenio.

Queste, col senno di poi, sono le impressioni che mi diedero e che continuano a darmi ad ogni ascolto i suoni iniziali di Quadrophenia, l’album dei The Who, che in fase di addormentamento ascoltavo con mio fratello. Un album che è cresciuto con me, nel senso che ha la mia stessa età e che si apre con un titolo binomio per me fondamentale: I am the Sea/The real me[1].

 

Io sono il mare.

La canzone inizia con le onde a cui accennavo in apertura, onde forti che non lasciano scampo, meglio non trovarcisi in mezzo. Il suono molto evocativo mi ha sempre rimandato ad un tempo arcaico, quasi un’Alba dell’Uomo, ma a differenza del famoso incipit del film-odissea di Stanley Kubrick, non ci sono scimmie che si aggirano brandendo ossa da scagliare contro altri animali.

In questo luogo non è ancora apparsa forma vivente[2] (o, meglio, se c’è è anfibia). Poi arriva il suono di un corno, un richiamo a stabilire un assetto, un momento iniziale in cui le forme cellulari si radunano a formare qualcosa di più complesso, qualcosa che ha la forma della voce di un uomo.

 

“Is it me”.

Risuona, nel frastuono, una voce dall’incedere titubante: un uomo sembra farsi strada tra le nebbie e i vapori che salgono da questo mare ancestrale, per affermare la propria esistenza, il proprio essere. Le onde, però, risuonano più forti, quasi a sottolineare l’impotenza umana di fronte alla forza della natura[3]. Infatti, poco dopo, con un’eco che si dissolve in lontananza, questa voce aggiunge: “for a moment, for a moment, for a moment”.

Siamo immersi in un senso di meraviglia e allo stesso tempo di precarietà di fronte alle cose per cui questa voce, nella canzone, grida con forza: “Love Reign o’er me”. Come se, una volta uscito dalle acque del proprio inconscio, l’uomo si trovasse di fronte ad un monolito[4] che gli ricorda l’alterità, vale a dire la dimensione dell’altro, la collateralità. Infatti il frastuono si placa e termina con l’emergere di una domanda da parte dell’uomo che traghetta da una visione all’altra chiedendo un riconoscimento: “can you see the real me, can ya? Can ya?”.

 

Vision two: to be a man.

La dimensione della collateralità è, o almeno lo è stata fino ad un certo punto della sua filmografia[5], la cifra stilistica del cinema di Michael Mann, culminata addirittura in un titolo: Collateral. Girato in digitale in una Los Angeles mai vista così buia, il film racconta di un killer professionista che si fa scarrozzare da un autista di taxi (tramite un inganno iniziale) in diversi luoghi della città dove alcune persone incontreranno il loro tragico destino. Sembra che al regista, che ha elaborato una sua poetica di cinema en plein air, richiamandosi in un certo senso ai principi della Nouvelle Vague (sempre onde, nda), interessi scandagliare l’animo umano nel suo lato criminoso. L’apice in questo senso è rappresentato da The heat (sottotitolo “la sfida”, ultima grande interpretazione di Robert de Niro, per quanto mi riguarda) in cui uno dei due protagonisti si chiama Neil, dal suono molto simile a Nihil.

In una delle scene più poetiche del film lo vediamo in piedi, di spalle, immerso nel blu, nella sua casa dalle enormi vetrate (lo schermo cinematografico?) mentre osserva il mare di notte, all’alba di una rapina in cui potrebbe perdere la vita.

“Ora il sonno lo abbandonava più spesso, non una o due bensì quattro, cinque volte la settimana. Che cosa faceva in quei momenti? Non passeggiava a lungo dentro gli arabeschi dell’alba. Non aveva un amico tanto intimo da sopportare il tormento di una telefonata. Cosa dirgli? Era una questione di silenzi, non di parole.”

Don De Lillo, Cosmopolis

 

Vorrei entrare nella sua mente, sapere cosa pensa quest’uomo apparentemente granitico che persegue una rigida etica professionale ai limiti del kantismo, ossia un’etica fondata su massime da rendere universali nell’agire. Infatti Neil-Nulla, durante l’incontro nel diner con il suo inseguitore (un memorabile Al Pacino, poliziotto), afferma il suo principio guida: “Il vecchio Jimmy diceva sempre che se vuoi fare il nostro lavoro (vale per lui ma anche per il poliziotto, nda) non devi legarti a nessuno che tu non possa abbandonare nel giro di trenta secondi”. Scruto De Niro nel momento in cui forse cerca consolazione nell’abbraccio del mare; osserva le onde che minacciano di inghiottirlo e probabilmente si sta interrogando su di sé, sul senso delle cose. Forse pensa alla donna che ha incontrato e con la quale ha una relazione; forse ha paura. Nella sua testa - ne sono convinto - riecheggiano le parole di Shakespeare: “domani nella battaglia pensa a me”. Un uomo, da solo, di fronte ad un’alba che sbiadisce, per citare il titolo di una canzone dei Joy Division, mirabilmente inserita nella colonna sonora del film tramite la cover di Moby, a rimarcare l’etica nichilista per cui si è pronti a lasciare l’amore.

“A change of scene, with no regrets

A chance to watch, admire the distance

Still occupied, though you forget

Different colors, different shades

Over each mistakes were made

I took the blame

Directionless so plain to see

A loaded gun won't set you free.”

Joy Division, New Dawn Fades

 

Allargando il campo dell’inquadratura, alle spalle di Neil che guarda il mare, possiamo vedere appoggiata su un tavolino una pistola, triste vera compagna di un criminale[6]. In quel momento anche lui sta gridando come l’uomo nella canzone dei The Who, che vuole essere riconosciuto, essere amato. È come se stesse cercando il senso del proprio agire.

Riesco a sentire la sua mente che grida:

“I’ve walked on water, run trhough fire

Can’t seem to feel it anymore

It was me, waiting for me.”

 

Riecheggia la risposta all’uomo di I am the Sea, vale a dire che arriva un punto in cui si è sé stessi (nel bene e nel male) per sempre e non per un momento.

“Hoping for something more,

Me, seeing me this time

Hoping for something else.”

Diversamente dovrei pensare che stia osservando il frangersi delle onde, ignaro del suo non essere più un uomo, perso nella sua etica, incapace di vedere cosa si muove su quelle acque primordiali.

“L’indifferenza delle scogliere

al nostro destino di formiche

cresce nella brutta serata;

siamo piccoli, piccoli, piccoli

Davanti a queste concrezioni solide

pur erose dal mare

cresce in noi un desiderio di vuoto,

la voglia di un perenne inverno.

Ricostruire una società

che meriti il nome di umana,

che conduca all’eternità

come l’anello va verso la catena.”

Michel Houellebecq, La ricerca della felicità

 

Vision three: Jupiter and beyond[7].

“Un sipario si alza sul mondo occidentale (…) il pubblico siede avvolto in uno strato di polvere. Dentro le orbite svuotate del cranio un ragno dorme e le spoglie snodate del buffone impiccato dondolano tra voli di mosche (…) creature a quattro zampe corrono avanti e indietro sulle tavole. Le forme più primitive sopravvivono.”

Cormack McCarthy, Suttree

 

È a questo scenario che penso, a questa visione regalataci da uno dei più grandi scrittori viventi, quando guardo per l’ennesima volta l’immagine che fa da copertina a quest’articolo. Un uomo di fronte al mare che osserva l’orizzonte notturno e vede queste creature che fanno avanti indietro sulle tavole, quel ragno dentro all’orbita dell’interlocutore. La sua.

 

Le forme più primitive sopravvivono.

Di fronte a questo annientamento esistenziale per cui un uomo è pronto a rinunciare alla sua donna pur di portare a compimento il proprio lavoro, mi chiedo se non siamo di fronte ad un nuovo tipo di umano giunto al limite di negare sé stesso.

That there

That's not me

(…)

In a little while
I'll be gone
The moment's already passed
Yeah it's gone
And I'm not here
This isn't happening
I'm not here”.

Radiohead, How to disappear completely

 

Quello laggiù non sono io.

Il cantato iniziale della prima visione (“is it me”) si limitava alla consapevolezza di sé, senza un vero e proprio interlocutore. L’uomo alla finestra del film di Mann scruta una landa desolata, dove forse scorge dei primitivi, suoi simili del resto. Il tutto viene ripreso e superato dalla canzone dei Radiohead, quasi in controcanto al “for a moment, for a moment” dei The Who: “in un attimo me ne sarò andato, il momento è passato. Si, se n’è andato e io non sono qui”.  

Un uomo nuovo, dicevo: neoumano, per usare il termine scelto da Michel Houellebecq ne La possibilità di un’isola, romanzo che prefigura una nuova era in cui la ripetizione, la clonazione è realtà. Nuove forme di vita tecnologica rileggono i diari dei loro predecessori biologici per cercare di comprendere le loro passioni, per farne tesoro e poi dimenticarle. Cloni senz’anima che hanno il compito di osservare i resti di un mondo in cui, come nell’incipit di McCarthy, creature a quattro zampe - qui denominate ‘I selvaggi’ - fanno avanti e indietro sulle tavole, su resti, frammenti su cui puntellare le proprie rovine[8].

Osservare: lo stesso gesto di De Niro che intravede il limite, pronto al dolce naufragare, a perdersi definitivamente nella dannazione eterna del gesto criminoso che sta per compiere.

Caro amico, adesso, nelle polverose ore senza tempo della città, quando le strade si stendono scure e fumanti nella scia delle autoinnaffiatrici e adesso che l’ubriaco e il senzatetto si sono arenati al riparo di muri nei vicoli o nei terreni incolti e i gatti avanzano scarni e ingobbiti in questi lugubri dintorni, adesso, in questi corridoi selciati o acciottolati neri di fuliggine dove l’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati, non camminerà anima viva all’infuori di te”.

Cormack McCarthy, Sutree

Camminare.

È ciò che fa il neoumano che decide di andare oltre la Barriera[9] per vedere per la prima volta il mare. È una sorta di oltreuomo nietzscheiano che reca in sé le tracce dei suoi predecessori mentre attraversa le zone desertiche generate dalle guerre precedenti; in questo incedere scopre qualcosa di atavico dentro di sé: il piacere della caccia. Lo stesso piacere che scopre anche il cane clonato che lo accompagna. Siamo dentro all’Alba dell’uomo del film stellare di Stanley Kubrick, dove un primate trova un osso e, dopo averlo utilizzato per colpire un suo simile, lo scaglia nello spazio. Migliaia di anni dopo, un erede, un’evoluzione di quel primate, si aggira nell’analogo deserto di un mondo ormai prossimo all’estinzione; di fronte al mare, però, anche il neoumano, il clone, intuisce la portata di quelle onde (di quel che ne è rimasto, a dire il vero).

“Quello era dunque ciò che gli uomini chiamavano mare e che consideravano come il grande consolatore (penso a De Niro/Neil/Nihil nella sua casa sul mare, nda) – […] ero impressionato e gli ultimi elementi che mancavano alla comprensione della mia specie si sistemavano a poco a poco. Capivo meglio adesso come l’idea dell’Infinito fosse potuta germogliare nel cervello di quei primati (…e il naufragar m’è dolce in questo mare, nda); l’idea di un infinito accessibile, per transizioni lente, nate nel finito.”

Michel Houellebecq, La possibilità di un’isola

 

Chi, tra voi, merita la vita eterna?

È questa la grande domanda con cui inizia libro dello scrittore francese. La possibilità di un’isola quale approdo verso un’altra dimensione, fatta di onde dove risuonano corni a richiamare un’identità, anche per poco: “is it me, for a moment, for a moment”. Quale sia questa identità e in cosa cerchi di rispecchiarsi un uomo, alla finestra, di notte, in una casa sul mare, è una questione insondabile che rimane aperta.

“Entrò nella stanza e andò alla finestra. La aprì. La spalancò. Non sapeva perché la stava spalancando. Poi capì. Voleva sentire l’odore forte della salsedine sulla faccia e lo scorrere del tempo dentro il corpo. Voleva che le dicessero chi era.”

Don De Lillo, Body Art

 

 

“Can you see the real me, can ya?

Can ya?”

The Who, I am the Sea

 

***

Postilla: la possibilità di una spiegazione.

Jupiter and beyond è il titolo che Stanley Kubrick diede alla sequenza del viaggio interstellare di Bowman, l’uomo arco, l’uomo nuovo, che al termine dell’Iperspazio ritrovava sé stesso replicato e morente in un letto, con il dito puntato verso il monolito che millenni prima di lui era apparso alle scimmie nei deserti africani[10].

Il Mare di cui ho parlato è il mio monolito. Come la stele nera rappresentava, per l’astronauta, la porta della Legge del racconto kafkiano, destinata solo a lui - porta che nel film attraverserà solo dopo essere rinato come feto astrale - il mare rappresenta per me una porta verso un oltre che mi parla dell’Infinito.

Non è casuale, allora, la citazione dell’ultimo pezzo che fa da colonna sonora al termine di The Heat, quando i due contendenti - uno morente e l’altro vivo - si tengono per mano nel segno della collateralità, diciamo pure dell’amicizia. Non è casuale il suo titolo: God moving over the face of water.

Per non finire…

Questo pezzo è stato chiuso nel giorno dei quarant’anni dalla pubblicazione di “Unknown Pleasures” dei Joy Division. Il mio pensiero, allora, va a Ian Curtis e a tutti quelli che, come scriveva, David Foster Wallace, si sono lasciati inghiottire dalla “cosa brutta”.

Beyond Jupiter. Oltre.

 

[Editing di ORNELLA GENUA]

 

[1] L’altro album che mi ha tenuto a battesimo è The dark side of the moon dei Pink Floyd, che a mio avviso ha una cosa in comune con l’incipit del disco dei The Who, vale a dire la presentazione delle tematiche di tutto l’album nei minuti iniziali.

[2] Mi piace pensare al Big Bang non tanto come a un’esplosione ma a un suono contenuto che nasce dal silenzio. Vibrazioni che hanno portato le prime forme di vita a muoversi uscendo dall’acqua.

[3] Qualcosa di simile a certe liriche di Giacomo Leopardi.

[4] Si torna sempre all’Odissea kubrickiana.

[5] Penso anche a Miami Vice, telefilm degli anni ’80 da lui prodotto, dove avevamo due protagonisti che si completavano l’un l’altro.

[6] Impossibile non riferirsi a Full Metal Jacket di Kubrick con i Marines che vengono addestrati ad andare a letto con il proprio fucile, a cui hanno dovuto dare un nome femminile.

[7] Dal titolo della sequenza finale con il viaggio interstellare di 2001: Odissea nello spazio.

[8] Termini rubati, non a caso alla Wasteland-La Terra desolata di Thomas Stearne Eliot.

[9] Game of Thrones?

[10] Gli evoluzionisti spiegano che la specie umana viene da lì, dall’Africa.


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