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REVIEWSLE RECENSIONI
06/11/2017
Julien Baker
Turn Out The LIghts
È svanito l’effetto sorpresa ma non importa, perché questo nuovo disco è un passo in avanti notevole che mostra un’accresciuta consapevolezza dei propri mezzi e una volontà di affinare la propria scrittura, pur mantenendosi a grandi linee negli stessi solchi tracciati in precedenza

Quando le luci si spengono si rimane da soli. Con le proprie paure, con le proprie angosce, con le proprie inquietudini. Si può essere insieme a tanta gente ma arriva il momento in cui la porta si chiude dietro le spalle. E qui bisogna scegliere: soccombere ai propri demoni o trovare, proprio in questo buio, un’inedita possibilità di ripartire.

Julien Baker ha 22 anni ma per quello che ha vissuto potrebbe essere molto più vecchia. È on the road da quando ancora frequentava le scuole superiori, col padre che li accompagnava perché i Forrister, la band di Emo Core con cui guadagnò una certa notorietà, era troppo giovane per viaggiare da uno stato all’altro.

Nel suo debutto da solista, “Sprained Ankle”, ha raccontato una vicenda fatta di abusi di droga, alcool e problemi mentali di un certo peso. A poco più di 20 anni ha riversato queste vicende su disco e ha lasciato tutti senza fiato.

L'ho vista dal vivo due estati fa e l’esperienza di quella gente in silenzio, attonita, ad ascoltare una ragazzina minuta urlare tutta la sua sofferenza e la sua voglia di esistere, me la porto dietro ancora adesso.

“Turn Out the Lights” è la logica prosecuzione di questo percorso e alcune cose sono cambiate, nel frattempo: c'è un contratto con la Matador Records, che l'ha fatta entrare nel giro di quelli che contano; e c'è, soprattutto, una storia che parla di esibizioni live sempre più affollate e di un hype attorno alla sua figura che sta crescendo esponenzialmente, con quotidiani come il New York Times che parlano del suo disco e importanti trasmissioni televisive che la invitano a presentarlo.

In tutto questo, la ragazza non si è montata la testa e neppure si è angosciata. Semplicemente, sta continuando a cantare le sue canzoni e a raccontare se stessa, come se fosse la cosa più normale del mondo.

È svanito l’effetto sorpresa ma non importa, perché questo nuovo disco è un passo in avanti notevole che mostra un’accresciuta consapevolezza dei propri mezzi e una volontà di affinare la propria scrittura, pur mantenendosi a grandi linee negli stessi solchi tracciati in precedenza.

Non è che faccia poi granché di elaborato, Julien Baker: si mette davanti al microfono e butta fuori tutto quel che le passa per la testa, fino a rompersi la voce, come cantava nella title track del primo disco. Stavolta però, lo dice meglio: “But there’s a comfort in failure, singing too loud in church, screaming my fears to speakers ‘till I collapse or I burst”.

Le sue canzoni escono fuori così, come l’acqua che sgorga da una sorgente e non è che ci voglia questo gran lavoro per decifrarle. Sono fatte della stessa materia di cui è fatta questa ragazza, coincidono esattamente con quel desiderio che può avere una che nella vita ha sbagliato tanto e si sente fuori posto: essere amata, nonostante tutto.

Non è un disco cupo come il precedente. I pezzi sono sempre intrisi di sofferenza e c'è talmente tanta tensione in queste note, in queste progressioni armoniche, che più volte viene da pensare che sia eccessivo, che non sopravviveremo fino alla fine. Eppure, in un modo misterioso, si intravede anche una speranza. Una voglia di lottare, di andare avanti, di non farsi definire dal proprio passato.

“Pensa ai racconti di Carver – ha detto in una recente intervista – queste storie ci piacciono perché non hanno un lieto fine. E a volte nella vita non c’è nessun lieto fine. E spero che magari, includendone una certa dose… no, non proprio, diciamo la speranza di un lieto fine: ecco, speranza è una bella parola.”. In effetti, nel finale dell’ultima traccia “Claws in your Back” canta: “I Wanted to Stay”. Alla fine dello scorso album affermava invece che voleva andare a casa, suonava come una rinuncia. L'ha fatto apposta, ha detto, voleva che si avvertisse la differenza. Tutta la differenza tra chi è sul punto di soccombere e chi invece accetta la sfida.

Il suono è più pieno, a questo giro. C'è il violino di Camille Faulkner (che la sta accompagnando anche dal vivo) in quasi tutte le tracce e questo strumento è fondamentale nel rendere più profondo il suono, nel donare ancora più intensità a queste canzoni. Ci sono più sovraincisioni che in passato e pianoforte e chitarra sono quasi sempre presenti insieme, conferendo al tutto uno spettro sonoro più ampio. Insomma, la formula è sempre la stessa, quel Folk Rock che guarda spesso e volentieri all’Emo, ma il vestito è più curato, frutto di una maturazione inevitabile, per una che vive con questa intensità.

Perché lo sforzo che si fa per sentirsi adeguati, il senso di costante fallimento, possono portare alla depressione, alla sensazione inesorabile che tutti gli sforzi che si fanno non muteranno la situazione (“The Harder I Swim The Faster I Sink.”, ripete incessantemente in “Sour Breath”, con un grido finale che ricorda appunto i migliori momenti del suo passato coi Forrister.).

C'è una canzone che, a mio parere, è necessaria per capire tutto il disco, ed è “Televangelist”: lunga confessione pianistica, un fluire incessante di parole privo di un centro vero e proprio. “Am I masochist, screaming televangelist, clutching my crucifix of white noise and static. All my prayers are just apologies, hold out a flare until you come for me, do I turn into light if I burn alive.”. Da una parte c'è una ragazza cristiana, che cantava in chiesa da piccola e che nel profondo del suo cuore non si è mai allontanata da Dio; dall’altra parte, quella stessa ragazza si è scoperta omosessuale, ha abusato di sostanze stupefacenti, ha attraversato una situazione non facile dal punto di vista psicologico. In poche parole, non ha esattamente offerto l’immagine della persona timorata di Dio che compete a certe comunità del Midwest in cui è cresciuta, molto rigide sulle questioni morali. Detto questo: le due cose possono convivere? Si può amare Dio e nello stesso tempo agire come chi è lontano da Lui? Sono questioni complesse e nel disco una risposta vera e propria non viene data. Ma più si va avanti nell’ascolto, più si sarebbe portati a dire di sì. Questo, nonostante in “Happy To Be Here” si dica che sarebbe bello essere diversi da quel che si è e ci si mostra insofferenti per il fatto di non riuscire a cambiare, di ricadere sempre negli stessi errori (“I Know there’s a fix for everything, then why not me?”). Ma d’altronde non è così per tutti? E non è forse vero quel racconto di Buzzati, “Il disco si posò”, dove quel semplice prete di campagna se ne sbatte degli extraterrestri senza peccato originale che vengono a trovarlo, dicendosi sicuro che Dio non ha nessuna soddisfazione ad amare degli spocchiosi primi della classe? Dev’essere così, certo: la nostra imperfezione rivela la nostra umanità. Ed è l’umanità nel suo concreto ad essere affascinante, non certo qualche sua proiezione fredda e astratta.

“Leave the car running, I’m not ready to go, and it’s just doesn’t matter where, I don’t want to be alone. And as long as you’re not tired yet of talking, it helps to make it hurt less.”. Così in “Hurt Less”, uno dei picchi emotivi del disco, col controcanto dell’ex Forrister Matthew Gilliam ad accentuare il senso di massima urgenza.

Il punto forse è proprio questo. Con un altro al proprio fianco, si può soffrire meno. Avere un altro al proprio fianco, accettare la sua presenza, avere il suo volto nel cuore quando si spengono le luci, può essere il punto di partenza per ripartire davvero.

“Credo in Dio – ha dichiarato recentemente – ma devi fare qualcosa anche tu. Non puoi semplicemente rimanere passivo. La passività è la tacita resa a quel male che abbiamo troppa paura di combattere attivamente.”. Una riconferma e un passo in avanti, per una delle artiste più valide mai apparse negli ultimi anni.