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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
20/01/2020
FELLINI 100
Una triangolazione di sogni
Mi rivolgo agli appassionati di Cinema con una domanda: riuscite ad immedesimarvi nella munificenza di due artisti di quel calibro che se la ridono e demitizzano la loro grandezza? Spesso si ha la tendenza a creare una mitologia, un’aura che circonda i nostri beniamini di riverenza e irraggiungibilità. Eppure sono proprio i grandi artisti a ricordarci che il miglior viatico verso l’Arte è l’umiltà.

“Felliniano?

Ho sempre sognato di diventare un aggettivo.”

(Il Maestro riminese si commenta ironicamente)

 

Dedicato ad Arturo Benedetti Michelangeli per la Musica di cui si è fatto interprete.

 

Aforismi e niente più.

Più che la Bellezza, forse sarà l’ironia a salvarci.

La frase in esergo di Federico Fellini era la didascalia di un’immagine in Rete, che lo ritraeva mentre rideva, allegramente seduto accanto ad Akira Kurosawa.

Mi rivolgo agli appassionati di Cinema con una domanda: riuscite ad immedesimarvi nella munificenza di due artisti di quel calibro che se la ridono e demitizzano la loro grandezza? Spesso si ha la tendenza a creare una mitologia, un’aura che circonda i nostri beniamini di riverenza e irraggiungibilità. Eppure sono proprio i grandi artisti a ricordarci che il miglior viatico verso l’Arte è l’umiltà.

Felliniano, dunque.

O potremmo anche dire Lynchiano, tanto per ricordare che i due registi sono nati lo stesso giorno. Cosa li accomuna oltre alla nascita? Sicuramente la dimensione del sogno, una grande visionarietà e la musica. Seppure in forme diverse, entrambi hanno completato la creazione delle loro opere mediante una tale tessitura con la musica che risulta difficile pensare alle immagini che hanno creato senza avere in testa un riferimento, un innesto musicale.

Prendiamo, ad esempio, la famosissima marcetta finale in Otto e mezzo quando Marcello Mastroianni danza in girotondo su quel palco desolato assieme alle altre persone con cui si è ritrovato: la musica composta da Nino Rota accompagna con un tocco delicato il passaggio dalla spensieratezza con cui tutti ruotano in cerchio seguendo il Mago, alla malinconia dell’uscita di scena nel buio del finale. È in queste poche immagini e nell’economia dei suoni che troviamo racchiuso tutto il mondo di Fellini.

Otto e mezzo

Otto e mezzo, Federico Fellini - 1963

Dove ci troviamo? Per come si è sviluppato il film fino a questo punto direi che siamo in una sorta di aldilà o quantomeno in una dimensione in cui ci si sgancia da tutto quanto è successo nella vita per ripensarsi e provare a perdonare. Emblematica in questo senso la scena in cui Mastroianni vede il padre, vestito di bianco, che si allontana voltandogli la schiena, mentre la madre lo guarda accennando ad un sorriso pieno di compassione per il figlio e per il marito.

Questa prefigurazione dell’aldilà e il ballo tenendosi per mano rimandano direttamente sulle montagne del finale de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, con la Morte conduce i danzanti al compimento del loro destino.

Il settimo sigillo, Ingmar Bergman – 1957

Ecco che incontriamo dunque un altro grande regista di fronte al quale possiamo utilizzare un aggettivo che ne sintetizza la cifra stilistica: bergmaniano.

Cosa accomuna i due? Innanzitutto la dimensione psicanalitica che, se risulta maggiore nel secondo (in termini di espressività delle immagini) non per questo è da meno in Fellini.

Sempre tornando a Otto e mezzo, basti pensare allo strepitoso incipit con quel sogno, in cui ci rendiamo conto di essere stati immersi solo dopo svariati minuti dall’inizio del film: nessun dialogo ma suoni dalla realtà con una sospensione al di fuori del tempo che fa riecheggiare gli orologi senza lancette del sogno del professore ne Il posto della fragole di Bergman, con il protagonista che vaga in una dimensione onirica fatta di corpi che non si vedono mai a figura intera (proprio come avviene nel sogno felliniano) e che vede il proprio doppio in una bara.

Il posto delle fragole, Ingmar Bergamn - 1957

Ed è proprio allora che il professore si risveglia, come pure si risveglia Mastroianni nell’incipit citato sopra, nel momento in cui nel sogno sta per essere scaraventato a terra da un lazo che lo aveva afferrato mentre si librava nel cielo, dopo essere uscito a stento dal finestrino dell’auto per sfuggire all’intossicazione dei gas di scarico, assumendo di schiena la nota silhouette di Fellini, in un simbolico passaggio da attore a regista.

Risulta chiaro, a questo punto, il legame con il regista svedese, alla luce del fatto che il sogno felliniano è il chiaro segno di un blocco, di un intasamento interiore dal quale si tenta di fuggire, ma c’è sempre un Ego (per tirare in ballo Sigmund Freud) che media tra le pulsioni e con un lazo ci trascina giù.

Otto e mezzo, Federico Fellini - 1963

Oniricità, che è una delle cifre stilistiche ricorrenti anche in David Lynch, per chiudere questo terzetto di registi che si tengono per mano come Mastroianni e i suoi attori nel girotondo sul quell’improprio palchetto che è la pista da circo.

The Other Space.

Recentemente ho visto un disegno, elemento di una serie, che il Lynch pittore ha realizzato in occasione di una mostra per festeggiare i cent’anni dalla nascita del maestro. In quei tratti si vede proprio il noto palchetto della danza, immerso nel buio a formare un cerchio di luci che rimandano ad un’astronave (probabile omaggio al tentativo non riuscito da parte del regista riminese di realizzare un film di Fantascienza).

Il regista americano coglie appieno lo slancio felliniano verso l’alterità spaziale e verso la possibilità

di incontro in una dimensione salvifica. Non si spiegherebbe diversamente il finale di Fire, walk with me dove troviamo Laura Palmer seduta nei divani della Black Lodge con un angelo che scende su di lei. Basti pensare, in aggiunta, ad uno dei momenti più forti della prima serie di Twin Peaks quando Leland Palmer morente vede la figlia nell’aldilà che lui stesso sta per raggiungere, mentre il detective Dale Cooper lo tiene tra le braccia recitando alcuni versi dal Libro tibetano dei morti.

Fire, walk with me, David Lynch - 1992

Sogni e niente più.

Sono davvero molti, anzi moltissimi i punti di contatti tra Federico Fellini e David Lynch.

Torniamo ad esempio al sogno iniziale di Otto e mezzo: l’incipit di Mulholland Dr. è pervaso dalla stessa atmosfera: abbiamo un’auto, un incidente e un sogno che si srotola per tutta la durata di un film su un’attrice che tenta di diventare famosa a Hollywood.

Un film nel film, in cui frequentemente sono mostrate scene di riprese, così come un film nel film è l’ottava pellicola e mezzo del regista riminese. Un’ auto, come quella di Terence Stamp in Toby Dammit, episodio curato da Fellini per il film Tre passi nel delirio. In quell’episodio scopriamo un’inedita propensione al macabro e al grottesco dato che la pellicola trae ispirazione dal racconto Non scommettere la testa con il diavolo di Edgar Allan Poe. Anche in questo caso Fellini riprende il tema del film nel film. Il protagonista, infatti recita la parte di un attore invitato a Roma per girare le riprese del primo western cattolico (probabile allusione, condita con il sapore della vendetta, ad alcune critiche di cui dirò più avanti) che in seguito ad una scommessa che era meglio non fare si troverà la testa tagliata.

Eccoci servita su un piatto d’argento l’anello di congiunzione per arrivare a Lynch (che un film fantascientifico lo ha realizzato) e al famoso saggio di David Foster Wallace David Lynch non perde la testa. La testa, la mente che cancella: Eraserhead è il titolo del primo film del regista americano, opera prima apprezzatissima da Stanley Kubrick che durante le riprese di Shining faceva spesso proiettare la pellicola chiedendo ai suoi attori di immergersi in quell’atmosfera.

Amarcord

Kubrick adorava anche uno dei primi film di Fellini, I vItelloni, una pellicola piena di spleen autobiografico dove si narrava della partenza del giovane regista alla volta di Roma. Balza all’occhio anzi, alla mente, il frame dei perdigiorno davanti al mare, che nella sua staticità si pone in antitesi sia al movimento circolare del balletto felliniano che al movimento lineare della danza bergmaniana.

I Vitelloni, Federico Fellini - 1953

Anche in questo film ci viene regalata sul finale una bellissima scena con i vitelloni ripresi mentre dormono nelle loro case, con la voce narrante che ci fa capire che quello è lo sguardo su di loro del Fellini giovane che sta per distaccarsi dalla sua terra, dai suoi amici in cerca di maggior fortuna (un po’ come Naomi Watts in Mulholland Dr.) anche se potrebbe trattarsi di una fortuna che rischia di svanire in un lampo.

La precarietà della vita come dell’arte è meravigliosamente rappresentata in Roma, con la scena degli scavi sotto la città, dove le trivellazioni portano a scoprire un antichissimo affresco. Splendida visione dal passato che l’ingresso dell’aria esterna, causato dall’apertura creata nel presente, si porta via, smangiandone i colori e le immagini per sempre. Forse è questo che Fellini vuole dirci: il Cinema ancora più della Pittura, ci ricorda la transitorietà dell’Arte stessa e quindi anche della nostra condizione umana.

Siamo ombre che camminano, diceva Shakespeare con una frase che è stata assunta dal Cinema per parlare di sé: le ombre che scorgeva il professore de Il posto della fragole di Ingmar Bergman, quelle che svaniscono nel buio malinconico di Otto e mezzo e, ovviamente, le ombre del sogno in cui Lynch pone sé stesso in uno degli snodi cruciali di Twin Peaks -The Return, con il detective Gordon Cole che vede corpi ripresi senza inquadrare la testa (autocitazione?), come avveniva nel sogno del film di Bergman.

Persona

Ed è proprio a Ingmar Bergman che David Lynch si riconduce in toto nel suo Mulholland Dr., non a torto considerato uno dei migliori film del ventennio appena terminato, con quella memorabile immagine in cui le due attrici si guardano allo specchio, mentre una cinge il volto dell’altra. La stessa posa di Bibi Anderson e Liv Ullmann nel film Persona, la più introspettiva delle pellicole del maestro svedese, dove si mette in scena il tentativo di una donna di plasmarne un’altra, analogamente a quanto accade in Mulholland Dr., versione moderna a sua volta di Sunset Boulevard di Billy Wilder, con una donna che cerca di trascinare nel vortice del proprio delirio il malcapitato protagonista.

Persona, Ingmar Bergman - 1966

Una strada, la Mulholland Drive, sulle colline di Hollywood, la fabbrica dei sogni; nel caso del film di Lynch dovremmo però dire la fabbrica dei sogni infranti.

Non poteva che essere così per una pellicola che sin dal titolo vuole ricollegarsi al capolavoro di Billy Wilder, Viale del tramonto, da sempre considerato uno dei film magistrali nel raccontare il Cinema stesso e i suoi meccanismi d’illusione, di falso movimento.

Ogni cinefilo ha depositata nella mente, la discesa dalle scale di una Gloria Swanson, oramai folle nella trama omicida del film, così come omicida era la protagonista di Mulholland Dr. alla fine del sogno, quando il lazo delle responsabilità condizionate dall’Ego, la trascinava nella desolata realtà, risvegliandola bruscamente. Gli appassionati ricorderanno che al termine della scalinata, pronto a dare via al ciak delle riprese per far credere alla Swanson di essere ancora un’attrice amata, c’era il suo maggiordomo, impersonato nientemeno che dal grande attore/regista Eric Von Stroheim. Cinema nel Cinema nel Cinema (nella pellicola sono presenti anche il regista Cecil B. De Mille e Buster Keaton) e in questo senso pensiamo a Marcello Mastroianni/regista in Otto e mezzo che al termine esclama: “Ve lo do io, il segnale!”, prima di far aprire le tende e mostrare una gradinata lungo la quale scendono tutti protagonisti del film (nella scena si vedono anche alcune attrezzature elaborate per il mai realizzato Il viaggio di G. Mastorna).

L’illusione di entrambe le donne si infrange sul finale come accade al termine de La dolce vita con Marcello Mastroianni vestito di bianco, barcollante sulla spiaggia, ubriaco dopo una notte di bagordi, (prefigurazione dei personaggi del finale di Otto e mezzo) che alza le mani in segno di resa, non riuscendo a sentire cosa la ragazzina sta cercando di dirgli dall’altro capo della riva, per via del fragore delle onde del mare. Siamo all’antitesi della diabolica bambina che in Toby Dammit lanciava una misteriosa palla al protagonista, attirandolo verso un gorgo fatale.

La dolce vita, Federico Fellini - 1960

La potenza di quest’immagine è emblematica delle vicissitudini legate al film che, va ricordato, nell’anno in cui usci subì invettive dai pulpiti delle chiese, con i preti che dissuadevano i fedeli dall’andare a vederlo. Buffo, volendo, per un film che inizia proprio con una statua simile al Cristo Redentore, che dall’alto guarda il Brasile, trasportata in elicottero con delle robuste cinghie attraverso il cielo di Roma. Pur tenendo conto del contesto temporale in cui si inseriva quella pellicola bisogna dire, in realtà, che proprio il finale salva il film dall’accusa di essere l’affresco e addirittura l’apologia di una società dedita al vizio. Non sono pochi infatti i critici che vedono proprio nella ragazzina sulla spiaggia la personificazione della Grazia di fronte al peccatore che non riesce a riceverne il messaggio, coperto dal rumore del mare, a simboleggiare l’assordamento della vita che egli conduce e dell’ambiente che lo circonda.

La dolce vita, Federico Fellini – 1960

Del resto, l’interpretazione di questa scena come un viatico per una dimensione ultraterrena si collega idealmente all’inizio del film di Ingmar Bergman Il settimo sigillo che analogamente si svolge su una spiaggia con il cavaliere tornato dalle Crociate che, mentre sta riposando, si vede compare davanti agli occhi nientemeno che la Morte in persona.

Sarebbe bastato aspettare solo qualche anno con l’uscita di Otto e mezzo, per capire che non era certo nell’interesse del regista sbeffeggiare i miracoli o la fede dei credenti. Illuminante in questo senso un dialogo tra Mastroianni, che nel film del ’63 interpreta non a caso un regista, e un cardinale:

Eminenza, io non sono felice.

-Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?

Sembra di sentire le parole del prete che dialoga con Alex in Arancia Meccanica di Stanley Kubrick quando afferma: “Dio non ti chiede di essere buono. Dio ti chiede di scegliere”.

Il settimo sigillo, Ingmar Bergman - 1957

Make your choice.

Scegliere, appunto, come nella partita a scacchi tra il cavaliere e la Morte ne Il settimo sigillo, muovere in una precisa direzione come in un altro finale, quello in cui Giulietta Masina ne Le notti di Cabiria, dopo essere caduta vittima di un inganno si fa forza e risale il bosco tesa a ripartire.

“Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare da capo?  Di scegliere una cosa, una cosa sola, e di essere fedele a quella, riuscire a farla diventare la ragione della tua vita, una cosa che raccolga tutto proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinta, saresti capace?”

(Marcello Mastroianni in Otto e mezzo)

Ecco che allora giunge alle nostre orecchie una musica che parte sommessamente per poi prendere corpo in presenza di alcuni freak che la circondano cantando e suonando la fisarmonica in un’atmosfera malinconicamente circense (perfettamente resa dalle musiche di Nino Rota), dimensione cara a Fellini, culminata nel film I clowns. Sembra di sentire questi personaggi gridare alla Masina “L’accettiamo, una di noi, una di noi” con un rimando al finale del disturbante Freaks di Tod Browning del 1932.

Girare in tondo, come nel finale di Otto e mezzo, sulla pista di quel circo allestito a metà, dove il protagonista proverà anch’egli a riprendere in mano la propria vita.

Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare, che mi ridà forza, vita? (…) ah, come vorrei sapermi spiegare ma non so dire (..) è una festa la vita viviamola insieme (…) accettami così come sono, è l’unico modo per tentare di trovarci.

(Marcello Mastroianni nel dialogo finale di Otto e mezzo)

È molto bello vedere come certe estetiche risuonino nel tempo: una spiaggia desolata e un circo sono il set del video All I want is you, song degli U2 datata 1989, con le immagini che narrano dell’amore di un nano per una trapezista. Oltre ai rimandi a Freaks non possiamo che tornare, alle analoghe riprese aeree de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders (con il quale gli U2 hanno spesso collaborato); non stupirà, allora ricordare che il video fu girato sulle spiagge di Ostia, non molto lontano dal set dove Fellini stava girando quello che sarebbe diventato il suo ultimo film: La voce della Luna.

“Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista veramente degno di questo nome, non bisognerebbe chiedere che quest’atto di lealtà: educarsi al silenzio” (frasi di un intellettuale in “Otto e mezzo”)

Arriviamo ora al termine di questo viaggio, con un invito al silenzio che si costituisce come il trait-d’union di questa triangolazione di registi.

Proprio nei momenti finali di Mulholland Dr. le due protagoniste entrano - sarebbe meglio dire, sono proiettate - all’interno del Club Silencio, dove un mago (vediamo un mago anche nel finale di Otto e mezzo) mette in scena uno dei trucchi del Cinema legati al sonoro e dove al grido di “No hay Banda”, svela come i suoni siano riprodotti senza orchestra e non facciano parte di una messinscena, ma siano aggiunti a posteriori, creando una sorta di illusionismo.

Sembra quasi che Lynch si ricordi delle parole dell’intellettuale del film di Fellini e invochi mediante il mago la necessità del Silenzio come dimensione dell’anima.

Mulholland Dr., David Lynch - 2001

il mago lynchiano guida la danza come il mago felliniano

Seguendo questo filo rosso eccoci allora traghettati verso uno dei film più problematici di Ingmar Begman che non poteva che intitolarsi Il silenzio, ultimo capitolo della cosiddetta Trilogia del silenzio di Dio, datato 1963.

Anche in questa pellicola abbiamo la storia di due donne, due sorelle in viaggio in treno con un bambino (sempre per non lasciare nemmeno troppo indietro Stanley Kubrick diciamo che nel film di Bergman ad un certo punto il bambino gironzola nei corridoi di un albergo e si intrattiene con un cameriere).

In questo film le difficoltà di comunicazione sono risolte e veicolate ad un livello superiore dalla musica, in questo caso da quella di Johann Sebastian Bach. Se poi vi interessa come prosegue la storia e avete avuto la pazienza di leggere fino ad ora, devo dirvi che ovviamente la protagonista non può che entrare in un teatro (il club Silencio?) dove sul palco ci sono dei nani.

Ricorre sempre questa dimensione, come se i personaggi dovessero per forza essere messi di fronte a sé stessi incontrando il diverso da sé, l’Altro, ed è forse in questo senso che, in una sorta di passaggio di consegne tra generazioni, la zia consegna al nipote un foglietto con scritta la parola: “Jadjek - Anima”. 

Il silenzio felliniano.

A questo punto manca solo lui a rimarcare questa parola e lo fa, in tono beffardo, con una frase finale spiazzante, al pari dell’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut con quel “let’s fuck” pronunciato da Nicole Kidman che vent’anni fa suscitò tante perplessità in chi avrebbe desiderato un finale di carriera meno brutale, facendomi pensare che forse non tutti hanno realmente compreso chi era Kubrick.

Di pari passo molti non avrebbero dovuto stupirsi che alla messa in onda del film La voce della Luna su Rai1 il regista riminese avesse chiesto che non fosse interrotto dalla pubblicità. Bisogna arrivare all’ultima scena (ancora un finale) per comprendere il perché di questa richiesta, con Roberto Benigni e Paolo Villaggio (mai così diversi dai loro cliché attoriali, così come lo era Alberto Sordi ne I vitelloni) che nel silenzio di un campo vedono la Luna stagliarsi nel cielo ad annunciare la: “PU-BBLI-CI-Tààà”.

Quel che resta di un aggettivo.

Cosa resta, infine, dell’incipit che campeggiava all’inizio di questo articolo?  Avrei voluto dire molte più cose su Fellini, affrontare maggiormente il tema dell’importanza della Musica nelle sue opere parlando di quel monumento che è Prova d’orchestra, o della presenza in La dolce vita di un giovanissimo Adriano Celentano e nientemeno che di Nico, la futura cantante dei Velvet Undergournd; avrei voluto parlarvi di come certe parole dei suoi film siano entrate a far parte del gergo comune (amarcord, paparazzi, dolce vita/il maglione) o di come il pranzo di matrimonio all’aperto della Gradisca in Amarcord sia citato da Emir Kusturica nel suo Underground…Come non raccontare di una gigantesca Anita Ekberg (nel senso dell’illusione delle riprese) che con il suo enorme seno (Freud, Freud, Freud!) invade l’immaginario del malcapitato irreprensibile protagonista de Le tentazioni del Dottor Antonio, episodio inserito nel film Boccaccio ’70, dove compaiono manifesti pubblicitari con scritto: “bevete più latte”?!?… (il latte-più misto a mescalina da bere al bar di Arancia Meccanica?) …avrei voluto, avrei…avrei, ma mi sono dilungato; anch’io come il vecchietto che prova l’acustica della sala all’inizio di Prova d’Orchestra forse ho perso il filo della narrazione parlando d’altro.

Lasciamo allora un po’ di mistero attorno a cosa significhi l’aggettivo felliniano: magari lo scopriremo fra cent’anni!

“Scorgere il silenzio, posargli un bacio sulle labbra e i tetti delle città saranno vaghi uccelli malinconici, dalle scarne ali.

Amare solamente la dolcezza e l’immobilità dall’occhio di gesso, dalla fronte di madreperla, dall’occhio assente, dalla fronte viva, dalle mani che, senza rinchiudersi, tutto custodiscono, sulle loro bilance, le più giuste del mondo, invariabili, esatte.

Il cuore dell’uomo non arrossirà più, non si smarrirà più, io faccio ritorno da me stesso, da ogni eternità”.

(tratto da Fra pochi altri - Paul Eluard)

“Ed ora”, ritornando a noi stessi e alle eterne parole del Bardo: “gli attori lasciano il palco (ultime immagini del finale di Otto e mezzo) …noi siamo fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”.

Il finale shakespeariano di Otto e mezzo

 “Hurry up please, it’s time!” come recitava un verso della Terra Desolata di T. S. Eliot.

The End.

 “Silencio”, allora. Come recita l’ultima battuta al termine di Mulholland Dr.

Il mago di Otto e mezzo sorride e ci saluta,

invitandoci ad unirci alla danza e al coro di: Auguri Federico! Auguri David!

 

[Editing di Ornella Genua]

   

 


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