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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
19/09/2022
Phoenix
United
Nel loro disco d'esordio i Phoenix applicano un'estetica elettronica al tradizionale songwriting rock, dando vita a un album avventuroso in grado di riorganizzare le percezioni sul pop chitarristico in stile anni ottanta. Il tempo non concede tregua e tanto è cambiato da quell’ormai lontano 2000, ma rimane un debutto da ricordare.

“Non ci siamo mai opposti a mescolare la dance music con una sensibilità indie-rock più arzigogolata o stilizzata. Non ci conformiamo a una sola etichetta, siamo trasversali a ogni categoria. Forse fa parte del nostro DNA, oppure è una cosa francese, non so”.

Deck d’Arcy, bassista e tastierista dei Phoenix ha sempre e comunque tenuto le distanze riguardo al tentativo di catalogare il contagioso mix presente nella loro musica. E United, infatti, oltre a quanto dichiarato dall’artista, è anche un’eclettica combinazione di jazz, pop, country e punk: dimostra come i ragazzi d’oltralpe siano già pronti a sperimentare cose nuove sin dal debutto, anzi probabilmente la maggior libertà compositiva, la migliore ispirazione si rivelano proprio all’inizio della loro carriera. Parliamo di un gruppo che, a partire dalla fine degli anni novanta paga lo scotto di rappresentare una realtà francese, concentrata, però, a fondere rock e new-wave, connotati non esattamente tipici per quella nazione. Insomma sia la natia Versailles, città "aristocratica", sia l’estero hanno in principio analizzato con sospetto la varietà e il tipo di generi su cui si è focalizzata la band.

Lo straordinario successo dell’esordio, ma soprattutto la sua alta qualità, tuttavia, eleva le scelte operate e inserisce il disco tra gli intramontabili. Dieci pezzi di pregevole fattura, notevolmente diversi uno dall’altro per decisione calcolata minuziosamente. L’obiettivo dei Phoenix è scrivere ogni canzone in maniera differente, come se fosse stata concepita da gente disparata; tali idee e il loro sviluppo ereditano la lezione dell’idolo incontrastato David Bowie, il suo desiderio di reinventarsi totalmente quando registrava un nuovo lavoro.

 

Il breve e intenso strumentale "School’s Rules" funge da apripista a questa concezione, con un’attitudine rockettara che s’infrange tra smooth jazz e new-wave. Inoltre il brano contiene un’interpolazione di "The Walkman", da quel piccolo capolavoro fusion di H, ottava fatica di Bob James, storico fondatore dei Fourplay, a dimostrazione della tendenza ad arricchire l’opera con creatività e citazioni colte. Clavinet, morbidi sintetizzatori e percussioni caratterizzano invece uno degli apici dell’LP, la dolce e viscerale "Too Young", che molti anche ricordano poiché inclusa in una particolare scena di Lost in Translation, film di culto con Bill Murray e Scarlett Johansson. Ecco un esempio di soft rock che strizza l’occhio agli eighties, prendendo il meglio delle sonorità di quell’epoca. “Mi sento troppo giovane, non posso sdraiarmi sul letto senza pensare che avevo sbagliato. Ma quando questo sentimento chiama, il mondo diventa un altro, la notte non terrà più me nelle tue braccia ancora”, canta il leader Thomas Mars, a evocare la fine di una relazione per mancanza di maturità, ribadita nella frase sibillina ”Credo di non poter vivere senza le cose che hanno reso la mia vita quello che è”, che amplifica il cortocircuito sentimentale.

"Too Young" è un bell’esempio di languide melodie cucite alla perfezione su liriche tormentate, mentre nella stupenda, soffice ballata "Honeymoon", con un sound a metà strada tra country e pop, vive la metafora di quanto l’arte, con il cinema in cima, possa farci davvero vivere una luna di miele. Tutti possiamo avere la nostra Hollywood e goderne appieno, questo è il messaggio, e si rimane incantati dal delicato accompagnamento d’arpa dell’ospite Sandrine Longuet, prima di cadere felicemente folgorati dai lunghi fraseggi d’organo e chitarra.

 

A conferma che le canzoni di questa variegata raccolta non sono, ovviamente, come già sottolineato, simili le une alle altre, ma lasciano trasparire l’infinita gamma della realtà, come conchiglie dentro le quali risuona il vasto mare dell’infinità, giunge "If I Ever Feel Better", la più celebre del quartetto. Costruita su ritmi ballabili grazie a un’atmosfera Disco anni settanta, presenta le chitarre pulsanti e frenetiche à la Nile Rodgers di Laurent Brancowitz e Christian Mazzalai, giri di spazzole e tamburi rutilanti per merito di "Mars" e una fine orchestrazione direttamente arrangiata dal gruppo. Questa composizione ha un forte accento funky e R&B, un refrain imperdibile e liriche quanto mai spiazzanti. Forse se ne è parlato troppo poco, concentrandosi sulla bellezza del groove creato e del canto spigliato, ma, a fronte dell’auspicio speranzoso dell’inciso, si dimenano tormento, disperazione e una parvenza di depressione nelle strofe.

 

“If I ever feel better
Remind me to spend some good time with you…”

 

“Se mai mi sentirò meglio, ricordami di passare un po’di tempo con te”, è la frase benaugurale preponderante, ribadita angosciosamente nel finale, tuttavia “Nessuno è a conoscenza del brutto periodo che ho passato, quando la felicità arrivò persi la chiamata, i giorni di burrasca non sono terminati” e “Sono sicuro ne uscirò, anche se non so ancora in che modo. Dicono che una fine possa portare a un nuovo inizio, ma mi sento come se mi avessero già seppellito seppur sia tuttora in vita” riportano nel più profondo degli abissi, specificando un male interiore che, pur sperando possa essere abbattuto, al momento non dà sollievo. I Phoenix, inoltre, a supportare l’ipotesi di questo dolore irrefrenabile da cui si cerca disperatamente di uscire, hanno optato per inserire un sample di una perla misconosciuta di Chikara Ueda, dal titolo emblematico, "Lament".

In United figurano anche eclettici episodi minori, perfettamente incastonati in tal gioiellino di progetto, come la punkeggiante "Party Time" e l’afosa "On Fire", carica di percussioni, cori e fiati. "Embuscade" è invece un interessante esperimento strumentale che coniuga i sintetizzatori a ottoni e archi. "Summer Days" spicca per la tenerezza della melodia (ulteriormente addolcita dai violini e da una morbida pedal steel suonata con maestria dallo special guest Eddie Efira), in contrasto con un testo amaro, pungente e disincantato, che evidenzia il malessere del ritorno alla vita di città dopo vacanze solo stancanti, fatte senza scegliere realmente ciò che si voleva, “Ho passato tutta l'estate a guidare. Sono stanco di vacanze rovinate, basta con i take-away, il cibo scaduto. Ho bisogno di un giorno vero.”

 

La conclusione del disco è sorprendente; il penultimo pezzo, "Funky Squaredance", celebre per il video diretto dall’istrionico Roman Coppola, è alquanto bizzarro, spiazzante, però decisamente geniale. Costituito da tre parti, lungo in totale quasi dieci minuti, è un brano macabro e indimenticabile per i cambi di ritmo, le intuizioni liriche e musicali.

L’inizio si potrebbe definire lugubremente bucolico, ove attraverso un’ambientazione elettroacustica creata dall’epinette, antico strumento a corde pizzicate della famiglia delle cetre tipico di una specifica zona della Francia, e da un’ispirata pedal steel, comincia la particolare confessione del protagonista della canzone. Tale persona apre il suo cuore e dopo la descrizione di situazioni che sembra possano aver fatto parte di una vita difficile, “Giorni di speranza e notti di tempesta. Non ho molto da vincere, né molto da perdere, sotto il peso della mia solitudine”, sopraggiunge la certezza che queste riflessioni, talvolta sfocianti nel grottesco, avvengano post mortem.  “Non riesco a credere che tu voglia vedermi indossare il frac da sera che si adatta al mio cadavere. Non ho bisogno di uno smoking, non c'è nessun buttafuori nell'aldilà”, canta Thomas Mars, preludio allo svolgimento del funerale e alla successiva sepoltura, “Un ultimo giro della città nel carro funebre, a poche miglia di distanza dal cielo. Pochi minuti ancora, prima che mi seppelliscano. Qualche settimana ancora, prima che i vermi lecchino le mie ossa.”

Ora si passa alla seconda frazione, è il momento dell’estremo saluto prima che la bara vada sotto terra. Anche il percorso musicale muta, ecco l’ultimo ballo con l’addio esclamato tramite strilli e urla. Hammond organ e Wurlitzer si intrecciano fino al grido ossessivamente ripetuto di “Funky Squaredance”, sopra a un potente riff di chitarra. La scelta della Square dance come Danza della Morte potrebbe essere stata ispirata da una poesia dell’autore britannico Roger McGough (intitolata proprio "A Square Dance" e ambientata nei campi delle Fiandre in periodo di guerra), nella quale viene citato un nuovo ballo di piazza che rende felici e senza fiato, e si chiama Danza della Morte. Pure in quest’occasione risulta poi inserito un sample da un vecchio successo, Give Me Some (1981), torrido funky dei mitici L.A. Boppers.

La parte terza conclude con sconfinata bellezza la “suite” e dopo un lancinante guitar solo del turnista Noe Efira arrivano le ”considerazioni” finali. Il cerchio si chiude, il cantato ricalca la melodia della traccia di riferimento del disco, quella "If I Ever Feel Better" in cui il protagonista sprofondava nelle sabbie mobili della depressione, ma cercava la luce. Adesso tutto è finito. Si odono pure le campane suonare a morto. “Ciò che conta è l’amore che dai” è la frase che nello stream of consciousness terminale riecheggia due volte, seguita dal rimbombante mantra “Funky Squaredance” già scandito nella precedente frazione. In fondo, quindi, quando avviene il distacco dal mondo per approdare -forse- in un’altra dimensione, si esce dal tunnel (della vita) per celebrare non l’egoismo dell’affetto ricevuto, bensì il candore dell’amore dato nell’intera esistenza.

Il breve strumentale "Definitive Breaks", “Rotture definitive”, nomen omen, dominato dallo scontro tra un’atmosfera thriller e un rasserenante sassofono, porta a compimento un’opera ricca di risvolti, dalla contaminazione sonora sorprendente alle tematiche profonde, dettate da una sofferta maturità. Un debutto di una qualità e quantità notevole e difficilmente raggiungibile nei successivi lavori, non sempre all’altezza della fama. Sicuramente da ricordare Wolfgang Amadeus Phoenix, realizzato nel 2009, che riporta la band a buoni livelli e corona la loro carriera con il raggiungimento del successo commerciale pure negli Stati Uniti, e il penultimo Bankrupt! (2013), ove, al fine di non ripetersi, si diminuiscono notevolmente le sonorità dance a favore di un funk dal sapore europeo. Recentemente sono usciti un paio di singoli, con l’ultimo, "Alpha Zulu", probabile anticipazione di un nuovo LP. Permane sempre intensa l’attività live.

Il punto di forza dei Phoenix rimane la coesione, la voglia di comporre, incidere e suonare sempre insieme, con ogni membro del gruppo dipendente l’uno dall’altro, come una famiglia, un’unità. E scrivere quest’ultima parola rievoca giustappunto il titolo del loro album, United, verace manifesto d’intenti.