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REVIEWSLE RECENSIONI
29/05/2021
Weezer
Van Weezer
Dopo aver raccontato il lockdown con OK Human gli Weezer tornano con Van Weezer, un album dove si celebra il ritorno alla normalità e si respira il profumo nostalgico dell’adolescenza.

Qualche giorno fa, durante il release party di Van Weezer, il quindicesimo lavoro in studio degli Weezer, Rivers Cuomo a un certo punto ha detto: «Qualunque cosa accada nel mondo in questo momento, abbiamo l’album degli Weezer giusto per te». Ed è vero, perché la band californiana, nel giro di tre mesi (e con una mossa che sarà interessante capire come verrà recepita dal pubblico e dall’industria musicale), prima ha pubblicato OK Human, un disco che ha saputo raccontare come pochi l’alienazione da confinamento domestico, mentre ora ha dato alle stampe Van Weezer, dove si festeggia il ritorno alla normalità e alla vita di prima (qualsiasi cosa questo voglia dire).

Annunciato nel settembre del 2019 con il singolo “The End of the Game”, Van Weezer ha avuto però una gestazione complicata. Previsto per maggio 2020 come biglietto da visita dell’Hella Mega Tour, il giro di concerti che avrebbe dovuto vedere Green Day, Weezer e Fall Out Boy riempire gli stadi di mezzo mondo, allo scoppio della pandemia da Covid-19 è stato messo da parte dalla band, che ha preferito dirottare la sua attenzione sul più intimo e cantautorale OK Human. Ma ora che negli Stati Uniti si è capito che ci sono concrete possibilità di far ripartire la musica dal vivo, Van Weezer ha finalmente visto la luce. Nel frattempo, però, sono venuti a mancare Eddie Van Halen e Ric Ocasek (ai quali il disco è dedicato), due dei punti di riferimento più evidenti per quanto riguarda il sound di Van Weezer, trasformando così l’album da semplice omaggio a vero e proprio tributo alla loro visione musicale.

Nonostante titolo e copertina facciano pensare il contrario, Van Weezer non è però una copia carbone dei dischi dei Van Halen. Di quell’esperienza però – in particolar modo dell’era-Dave Lee Roth – Rivers & Co. sfruttano tre peculiarità: 1. la compattezza (il disco dura 31 minuti scarsi); 2. la tecnica al servizio del songwriting (nonostante Cuomo sia un ottimo shredder, gli assoli di chitarra sono sempre funzionali alle canzoni); 3. la messa in risalto il loro lato geeky, seguendo l’esempio di Diamond Dave, uno che ha interpretato il ruolo del frontman più come uno stand-up comedian che come un macho testosteronico. Un atteggiamento, questo, che è esaltato dal volume esagerato delle chitarre, che tornano a ruggire dopo essere state pressoché assenti in OK Human, e che fa capire ancora di più la vera natura del progetto Van Weezer: un’ode all’adolescenza spensierata e a quei momenti già descritti da Rivers in canzoni come “In the Garage” e “Heart Songs”, ovvero il ritrovarsi in una stanza assieme ai tuoi amici a suonare le canzoni dei tuoi gruppi preferiti (Kiss, Iron Maiden, Slayer, Judas Priest) facendo più baccano possibile.

Questo filo conduttore – che lega tutte le dieci canzoni del disco – è palese fin dal primo pezzo, “Hero”, dove Rivers ci racconta di come, da bambino, volesse essere simile ai supereroi dei fumetti,  ma che poi, una volta diventato famoso, abbia capito che la sua vera natura sia in realtà quella dell’outcast, dell’emarginato, perché «la vita è già abbastanza difficile con una sola identità». Un tema, questo, ripreso in maniera obliqua anche in “1 More Hit”, dove, sorretto da un riff che sembra uscito da un disco dei Judas Priest, Cuomo ci confessa tutta la sua inadeguatezza e la sua frustrazione di compositore, incapace di scrivere – pressato dalla casa discografica – una nuova canzone di successo per la propria band.

Ovviamente, trattandosi anche di una sorta di gioco metatestuale, Van Weezer spinge l’ascoltatore a divertirsi a scovare tutti i riferimenti disseminati nell’album, come fossero degli Easter egg. Per cui ecco che in “The End of the Game” si citano i Van Halen, dal riff iniziale che strizza l’occhio a quello di “Panama”, ai cori, che riprendono quelli di “When It’s Love”. Per non parlare poi di “I Need Some of That” (che nei secondi finali ci regala un cameo di Ric Ocasek), che si apre con un omaggio a “Heat of the Moment” degli Asia e nel ritornello rielabora la melodia di “(Don’t Fear) the Reaper” dei Blue Öyster Cult. (A proposito di BÖC, come non pensare a loro quando in “She Needs Me” compare il campanaccio, già al centro di un geniale sketch del Saturday Night Live?). In “Blue Dream”, invece, gli Weezer prendono in prestito l’iconico riff di “Crazy Train” di Ozzy Osbourne e ci appiccicano sopra un surreale testo che ricorda molto da vicino quello di “Octopus’s Garden” dei Beatles, mentre in “Beginning of the End” vanno a pescare dal canzoniere di Billy Joel inserendo un’interpolazione di “The Longest Line”.

È ormai evidente – e questo album ne è la dimostrazione palese – che gli Weezer si trovino meglio a lavorare per concept, decidendo a monte quali sonorità adoperare e smistando di conseguenza i vari brani in direzione del progetto che ritengono al momento più adatto. Ecco spiegata la presenza di ben tre pezzi del periodo di Everything Will Be Alright in the End (“The End of the Game”, “Beginning of the End” e “I Need Some of That”, quest’ultima in realtà scritta per Hurley, provinata per Everything Will Be Alright in the End e infine apparsa – con un testo e un arrangiamento diversi – in ????, il disco in lingua giapponese del side-project Scott & Rivers) e di uno risalente addirittura alle sessioni di Pinkerton (“Sheila Can Do It”, proposta anche dagli Homie tra il 1997 e il 1998 e presa poi in considerazione per Everything Will Be Alright in the End).

Prodotto da Suzy Shinn, ingegnere del suono al fianco della band dai tempi del White Album, Van Weezer si chiude con “Precious Metal Girl”, un bozzetto acustico vicino alle atmosfere di “Butterfly” di Pinkerton. Lì Rivers cantava del suo rimpianto per aver rinchiuso una farfalla in un barattolo, mentre qui si lascia andare ai ricordi, rievocando i suoi primi mesi a Los Angeles, quando, appena arrivato dal natio Connecticut, si sistemava nella Sunset Strip e distribuiva ai passanti i volantini della sua band. Finché non è apparsa lei, «my precious metal girl», pantacollant in spandex, giubbotto di pelle con la toppa sulla schiena e lacca Aqua Net nei capelli: la ragazza ideale di tutti i nerd del rock. Un’immagine che chiude alla perfezione un disco che celebra la forza e l’innocenza dell’adolescenza più pura, un posto speciale in cui prima ci si ribella a suon di Aerosmith e subito dopo si chiama la mamma per farle sapere che sta andando tutto bene.


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