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REVIEWSLE RECENSIONI
02/12/2017
Jordan Rakei
Wallflower
Capite bene, se anche voi seguite un po’ la scena, come questo 2017 sia stato avaro di soddisfazioni, tra voci stentoree filtrate a più non posso, testi alla “fottimi forte/guarda come ce l’ho grosso”, sonorità scarnificate e sintetiche come se avessero chiuso tutti i negozi di strumenti musicali… beh, questo Wallflower è stato per il sottoscritto come bere da una fontana che butta vino.

Ma tu guarda se per trovare un bel disco di R’n’B uno debba cercare in Nuova Zelanda ! Alt, mi spiego meglio: non sono andato laggiù fisicamente, magari, nessuna terra di mezzo ed All Blacks, è che uno dei migliori lavori del genere è stato licenziato da un neozelandese, Jordan Rakei, dal 2014 trapiantato a Londra. Altra cosa, ha la pelle bianca e una bella voce soul.

Capite bene, se anche voi seguite un po’ la scena, come questo 2017 sia stato avaro di soddisfazioni, tra voci stentoree filtrate a più non posso, testi alla “fottimi forte/guarda come ce l’ho grosso”, sonorità scarnificate e sintetiche come se avessero chiuso tutti i negozi di strumenti musicali… beh, questo Wallflower è stato per il sottoscritto come bere da una fontana che butta vino.

Secondo album del nostro (non chiedetemi come si chiamava il primo album e di che anno era, non sono dell’ufficio informazioni, vi fate una ricerca in rete e troverete tutto: forza, scansafatiche!) appena fresco di contratto per la Ninja Tune, mica pizza e fichi, quindi produzione sopraffina ma soprattutto con la voglia di sperimentare e al tempo stesso di tenere tutti e due i piedi dentro la tradizione.

Prendi i primi due brani: “Eye to Eye” inizia con un arpeggio di chitarra e Jordan a declamare versi che già tu pensi di chiuderla lì quando improvvisamente ti piomba tra capo e collo un break di batteria in ritmo dispari che andrà avanti per il resto del brano, la chitarra che ripete incessante lo stesso motivo, usata come uno strumento a percussione poi la stessa va a seguire il canto, il basso, cupo, a supportare, poi verso la fine arrivano i synth e il ritmo si butta in direzione jungle (ve la ricordate? Fu il marchio caratteristico dell’etichetta negli anni 90). Ma non finisce qui, il pezzo sfuma appena e in un toc-toc di tastiera siamo subito pronti per ‘May’ e quel toc-toc prosegue incessante, lo accompagna uno sbuffo di chitarra usato come un metronomo impazzito, poi improvvisamente si placa tutto e arriva un’apertura melodica solo voce e note di piano e poi via, si riparte come prima.

Da “Sorceress” in poi si rientra nella normalità, o per meglio dire in brani più immediati e qui voglio rimarcare dello stare con i piedi ben fermi nella tradizione: “Nerve” e “Goodbyes” sono due ben assestati colpi di groove nello stomaco dei miscredenti, bellissimi. L’r’n’b si trasfigura in soul, elegante come lo era quello dei seventies, senza esserne una copia (riapro una parentesi: i gruppi di retrosoul mi stanno fracassando le gonadi). Ma ancora: in “Clues Blues” dei fiati mezzani ci portano ad assaporare un po’ di jazz condito con echi dub. Non vi basta? Ecco arrivare “Chemical Carnation” che per tre quarti del brano si muove nel solco del più tradizionale R’n’B ma poi, ecco il colpo di genio, negli ultimi cinquanta secondi il brano compie una brusca accelerata ritmica e spinge, spinge, sempre più forte, come l’atto conclusivo di un torrido coito, giù giù fino alla fine. Non potevano mancare le ballad e infatti gli ultimi due pezzi vanno in quella direzione, anche se ben diverse dalle classiche canzoni strappacóre, sono canzoni introspettive e anemiche, in particolare la title track dove Rakei, qui accompagnato da una chitarra acustica sopra un tappeto di synth, coadiuvato dalla voce di Kaya Thomas-Dyke, firma l’atto conclusivo del disco, disilluso e intrappolato nella sua fittizia libertà.

Nessuna nostalgia per Jordan Rakei, ma la consapevolezza di essere un gradino avanti a tanti nomi più celebrati della black (esclusi i mostri sacri, ovvio, ma se la sta giocando bene) testi aldilà di cazzi e fighe; mi preme rimarcare che qui stiamo parlando di solitudini assortite e di mal di vivere nell’anno domini 2017.

Un disco che merita di essere ascoltato, nella speranza che anche la critica nostrana sappia accogliere quello che già si prospetta come uno dei nomi da seguire nel prossimo futuro, a meno che la ceralacca che molti hanno nelle orecchie non li lasci ignari di quello che bussa con forza alla loro porta.