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REVIEWSLE RECENSIONI
We've Been Going About This All Wrong
Sharon Van Etten
2022  (Jagjaguwar)
IL DISCO DELLA SETTIMANA INDIE ROCK
8,5/10
all REVIEWS
23/05/2022
Sharon Van Etten
We've Been Going About This All Wrong
In copertina c’è lei con i capelli corti, in un esplicito tentativo di rievocare il 2005, quando aveva 24 anni e lavorava in un'enoteca. Sullo sfondo il cielo infuocato di Los Angeles, città dove vive ora, eloquente richiamo agli incendi di quest’estate. In questa tentata sintesi tra passato e presente, il sesto disco di Sharon Van Etten rischia seriamente di poter diventare il migliore della sua carriera.

In copertina c’è lei con i capelli corti, in un esplicito tentativo di rievocare il 2005, quando aveva 24 anni e lavorava in un'enoteca. Sullo sfondo, il cielo infuocato di Los Angeles, città dove vive ora, eloquente richiamo agli incendi di quest’estate. 

È in questa tentata sintesi tra passato e presente, un'immagine dai risvolti apocalittici e un titolo che suona come una sentenza, il miglior biglietto da visita del sesto disco di Sharon Van Etten. 

Un lavoro che, se rischia seriamente di poter diventare il migliore della sua carriera almeno fino a questo momento, è forse perché frutto di anni particolarmente difficili. 

La pandemia l’ha sorpresa come ha sorpreso tutti e nei prossimi mesi (ammesso che sia poi davvero tutto alle nostre spalle) bisognerà abituarsi a leggere sempre le stesse cose in sede di presentazione. È anche normale, per quanto a tratti possa sembrare fastidioso: era dai tempi della Seconda guerra mondiale che un evento non poteva definirsi davvero globale. 

“È come se ci fosse la fine del mondo e nessuno ce lo stesse dicendo” ha detto a proposito di quei mesi del 2020, in cui si è trovata chiusa in casa e ha dovuto addirittura cancellare il suo matrimonio con Zeke Hutchins, batterista, manager nonché padre di suo figlio. Se lo recupereranno non è dato sapere, al momento c’è una canzone, “Anything”, che è tra le più belle dell'album e che è stata scritta in un giorno in cui alla radio hanno passato “Polka Dots and Moonbeams” di Bud Powell, che avrebbe dovuto essere la colonna sonora delle loro nozze. 

Sono stati mesi di reclusione, durante i quali hanno preso lentamente forma le dieci canzoni di questo lavoro, ma poi ci sono stati gli incendi: la California ha preso fuoco e lei si è trovata nuovamente bloccata in casa con la famiglia, un senso di incertezza e l'idea della fine del mondo sempre più chiara nella testa. 

We've Been Going About This All Wrong esce a tre anni da Remind Me Tomorrow e a tredici da Because I Was in Love, che ha inaugurato la carriera di quella che oggi può essere tranquillamente considerata come la più importante cantautrice del suo tempo, almeno in termini di musica indipendente/alternativa. 

Lo dice il numero di colleghe che la stimano e che la considerano fondamentale per l’inizio del proprio cammino artistico: sono tante, da Torres a Julien Baker, passando per Angel Olsen, ma se si scorre la lista di nomi che hanno preso parte alla rivisitazione del suo secondo, e forse più popolare album Epic, si scopre anche gente ultra blasonata come Fiona Apple e Lucinda Williams. 

Lo dice la collaborazione con The National, Bon Iver e, va da sé, Big Red Machine, l'apertura al tour di Nick Cave nel 2013 (scelta da lui personalmente) oppure, ciliegina sulla torta ma comunque evento non trascurabile, l'aver recitato nella serie Netflix The OA, una parte piccola dove ha comunque dimostrato doti notevoli. 

Il disco esce così, tutto insieme e tutto in una volta, senza essere preceduto, come è ormai usanza, da una pletora di singoli che ne rompono per forza di cose la coesione (“Porta” e “Used to It”, usciti tra febbraio e marzo, non sono stati inclusi nella tracklist). Ci permette di viverlo, di assimilarlo nello stesso identico modo in cui lei ha voluto che lo si facesse, e ci permette di apprezzarlo appieno. 

È un disco intenso, a tratti magniloquente, senza dubbio drammatico, a partire da quella “Darkness Fades” che rievoca gli incendi estivi e lo fa con struggimento e con un certo retrogusto oscuro. 

È un disco a tratti minimale, a tratti pieno di strumenti e orchestrazioni, con la voce mai così matura e consapevole, “adulta”, le note più alte, da soprano, utilizzate in misura maggiore che in passato e con un ben più alto grado di urgenza. 

Canzoni tutte bellissime, da “Home to Me”, un tocco in più di elettronica, impronta scarna data dagli accordi di piano su cui si staglia la voce, scritta per il figlio che oggi ha cinque anni, un brano dove c’è tutto lo struggimento di una madre che fa un lavoro che la tiene lontano da casa per lunghi periodi (in una recente intervista, tra l'altro, ha detto che non sa se continuerà per molto a fare lunghi tour).

“I'll Try”, ritmo nel complesso più sostenuto, batteria triggerata, è anch'essa una delle migliori, Pop song elegante che senza dubbio funzionerà bene anche dal vivo. 

Oppure la struggente e semi acustica “Come Back”, che è un episodio dove al contrario viene fuori la sua caratura da classica songwriter americana, un brano senza tempo che avrebbe potuto scriverlo Lucinda Williams, giusto per tornare a quel che si diceva prima. O ancora “Born”, che indugia maggiormente sull'elettronica, è lenta e a tratti funerea, con una coda strumentale che mostra la volontà di sperimentare anche in sede di arrangiamento. 

E non dimentica neppure un certo afflato radiofonico, un certo gusto per l'easy listening soddisfatto in pieno da due brani come “Headspace” e “Mistakes”, entrambe caratterizzate da melodie leggere e ritornelli killer. 

A 41 anni Sharon Van Etten ha realizzato la sua opera definitiva.