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REVIEWSLE RECENSIONI
20/11/2019
Ringo Starr
What’s My Name
Tra invettive contro la modernità, buone vibrazioni e un eterno senso di gratitudine per la vita da privilegiato che ha potuto vivere, Ringo Starr con “What’s My Name” ci consegna un disco luminoso come il sole della California dove è stato registrato, pieno di melodia e buonumore.

Compulsando la discografia solista di Ringo Starr, si può osservare uno strano fenomeno: dei 20 album pubblicati in 49 anni di carriera, ben otto (quindi il 40%) sono usciti nel corso del XXI secolo. Una statistica curiosa, che non ha praticamente precedenti in artisti del suo calibro, i quali, tendenzialmente (ricordiamo che Ringo ha compiuto 79 anni a luglio), sono portati a diminuire sia le uscite discografiche sia le apparizioni dal vivo. Ma non Sir Richard Starkey, che esattamente trent’anni fa ha inventato la formula della All-Starr Band e che da ormai due decadi è in tour a intervalli regolari. Naturale, quindi, che l’attività live abbia influenzato ciò che succede in studio di registrazione e che, dopo due album formalmente perfetti come Time Takes Time (1992) e Vertical Man (1998), costruiti a tavolino e realizzati con i produttori più beatlesiani sulla piazza (Jeff Lynne su tutti), Ringo abbia sentito la necessità di sparigliare le carte, convocando ogni paio d’anni nel suo studio casalingo i musicisti che lo accompagnano abitualmente in tour per poi pubblicare degli album senza troppe sovrastrutture.

Per cui, a voler fare i pignoli, What’s My Name non è così diverso dai dischi pubblicati da Ringo nel corso dell’ultimo decennio. Starr infatti anche qui ricopre il ruolo di produttore, affiancato dall’ormai fidato Bruce Sugar, mentre in studio si alternano membri della All-Starr Band (Steve Lukather dei Toto, Colin Hay dei Men at Work), turnisti di lusso (Nathan East, Jim Cox, Benmont Tench), guest star (Edgar Winter, Richard Page dei Mr. Mister), parenti acquisiti (il cognato Joe Walsh degli Eagles) e amici di lunga data (Paul McCartney). Insomma, una festa casalinga con ospiti di un certo livello, piena di buonumore e voglia di divertirsi senza troppe pretese – e se ci scappa una buona canzone, tanto di guadagnato.

Cresciuto alla scuola di George Martin, Ringo sa perfettamente quando è il momento di prendere le cose alla leggera (“Gotta Get Up to Get Down”), quando fare sul serio (“It’s Not Love That You Want”) e quando dare al pubblico quello per cui ha pagato il biglietto, ovvero un pizzico di Beatles, vuoi attraverso la cover di “Grow Old with Me” di John Lennon (con Paul McCartney al basso), vuoi con la rilettura (con tanto di vocoder!) di “Money”, vecchio successo Tamla che i Fab Four hanno inciso nel 1963 in With the Beatles. Con le sue atmosfere rilassate e un palpabile senso di cameratismo, What’s My Name è il classico album nel quale i musicisti coinvolti possono esprimersi senza particolari pressioni e aspettative, come fossero in vacanza dalle loro rispettive carriere. È così che ognuno dà il meglio di sé, come Steve Lukather e Joe Walsh, che fanno a gara a chi suona meglio, oppure Nathan East che al basso esibisce una versatilità senza eguali. Ma il disco non è solo il frutto del lavoro di vecchie volpi dello showbiz, ma anzi, c’è spazio anche per le nuove leve, come Sam Hollander (Panic at the Disco, blink-182, Weezer, One Direction), che porta in dote due dei pezzi più convincenti del lotto, “Thank God for Music” e, soprattutto, “Better Day”.

Tra invettive contro la modernità («Everybody's on the Internet, what’s up with that?»), buone vibrazioni e un eterno senso di gratitudine per la vita da privilegiato che ha potuto vivere, Ringo ci consegna un disco luminoso come il sole della California dove è stato registrato, pieno di melodia e buonumore. È vero, alle volte il tutto può sembrare banale e perfino risultare un po’ stucchevole, ma è difficile non amare un album con uno spirito così puro e un cuore così grande.


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