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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
04/07/2022
Joe Cocker
With a Little Help from My Friends
Quando, nel 1969, Joe Cocker pubblica With a Little Help from My Friends, non ha più niente da perdere. Trae forza dalla convinzione che non serva lamentarsi del passato e nemmeno preoccuparsi del futuro. La vita può avere luogo solo nel presente e in questo album, in queste canzoni, dà tutto se stesso, senza altri pensieri. Dopo parecchi anni il magnifico risultato di tanta abnegazione fluttua ancora nell’aria, si percepisce osservando gli occhi lucidi di chi ha appena finito di ascoltare, ancora una volta, l’opera: questo disco è un pilastro del rock moderno e la voce dell’artista di Sheffield è quanto di più genuino possa ricondurre alla sofferenza del blues e alla profondità del soul.

Fa sorridere, ora che se ne conosce la carriera trionfale, pensare agli esordi di Joe Cocker, quando veramente in pochi avrebbero scommesso sulla sua possibilità di diventare una leggenda del rock. Nato nel 1944 a Sheffield, la città dell’acciaio, in Inghilterra settentrionale, suo padre è un dipendente della Royal Air Force, mentre il fratello maggiore Victor è un fanatico dello skiffle e introduce il piccolo Joe a tutto ciò che riguarda le sette note.

In particolare Ray Charles e Lonnie Donegan sono i suoi idoli quando ha appena compiuto dodici anni. Più avanti forma con alcuni amici il primo “complessino”, però i risultati sono pessimi: figurarsi che, al primo spettacolo in un club per giovani, nella sua città natale, è costretto a dover pagare il biglietto per potersi esibire. Il ragazzo, oramai maggiorenne, comunque non demorde e riesce a pubblicare una cover dei Beatles, "I’ll Cry Instead", per la famosa casa discografica Decca, senza, ahimè, nessun clamore. Il singolo non solo risulta un fiasco, ma fioccano anche commenti poco edificanti su di lui come artista, definito, in una recensione, scialbo, inconsistente e “con un viso simile al retro di un autobus aziendale”.

La meraviglia che destano i personaggi come Cocker nasce dalla loro caparbietà e voglia di emergere, unita alla consapevolezza delle proprie doti. Scorre il 1968, è passato quasi un lustro da quella versione insipida di un motivo dei baronetti e destino vuole che un'altra composizione del quartetto di Liverpool stavolta faccia il botto.

 

With a Little Help from My Friends anticipa l’album omonimo, che viene successivamente pubblicato nella primavera del 1969, e riporta il timone della nave squassata del buon Joe, ora trasferitosi a Londra, verso le acque della grande canzone; nemmeno un maremoto adesso può fermarla e ne esce fuori un’interpretazione indimenticabile. Niente sarà come prima dopo aver udito quella voce “scartavetrata”, macinata da quaranta sigarette al giorno, urlare a più non posso Oh, there's gotta be somebody, going to be right, I know it. Somebody carefree, now oh, yeah, yeah…”.

La lista degli ospiti in questo piccolo capolavoro, completamente riarrangiato in chiave rhythm and blues, è da capogiro, da Jimmy Page alla chitarra solista - il fondatore dei Led Zeppelin offre il suo contributo pure in altre quattro delle dieci tracce -, al funambolico giovane prodigio Tommy Eyre all’organo e a B.J. Wilson dei Procol Harum alla batteria. L’energia e la spiritualità delle straordinarie coriste Madeline Bell, Sunny Wheatman e Rosetta Hightower sono un altro punto di forza del pezzo, vissuto e interpretato da Cocker in maniera commovente, al limite, oltre i confini di un lacerante momento di vita laddove quell’attimo, quel lampo di cinque minuti e undici secondi, cambieranno per sempre l’esistenza.

Arriva infatti il successo commerciale, il 45 giri raggiunge il primo posto in Inghilterra, e tutto ciò gli consente di concretizzare la mole di lavoro che insieme al saggio produttore Denny Cordell - uno dei pochi ad aver subito creduto in lui e nel suo gruppo di accompagnamento, la Grease Band - aveva accumulato nei mesi precedenti. In aggiunta ad alcune cover, si perfeziona a livello compositivo la partnership formata dallo stesso Joe e il vulcanico Chris Stainton, eccellente pianista che si cimenta pure al basso in gran parte del progetto.

 

La piacevole e orecchiabile "Change in Louise", resa intrigante dai delicati fraseggi di Henry McCullough, i fremiti psichedelici di "Marjorine", probabilmente dedicata alla madre, e l’erotico-malinconica "Sandpaper Cadillac" sono il pregevole risultato della loro collaborazione. Segnatamente quest’ultima sembra utilizzare una serie di metafore per lamentare l’impossibilità di avere un rapporto amoroso con la compagna, “Lentamente, la mia mente e il mio sogno si trasformano in sventura, ora il mio gatto è solo, lo so, e non ha un osso… Il mio gatto comincia a dormire, dorme con me, non sai che ho tanto bisogno di quella cosa?”, logorandosi in un’atmosfera nostalgica dalla forte connotazione blues. Spesso i testi di tale genere vivono di doppi sensi, di imprese o insuccessi a sfondo sessuale e questo brano ne ricalca la tradizione. In particolare Zucchero trae una forte ispirazione da "Sandpaper Cadillac" per comporre nel 1997 "Menta e rosmarino", e riprende in buona parte la melodia delle strofe ideando poi un nuovo ritornello e scegliendo liriche più dimesse, evocanti amore e solitudine.

 

“Da ragazzo appena l'ho visto a Woodstock sono entrato in simbiosi con lui, come se fosse il mio fratello maggiore, come se fossimo gemelli. È qualcosa che non riesco a spiegarmi, certamente perché anch'io volevo fare quella musica lì, di solito destinata ai neri, e lui fu l'unico bianco che rese grande quel modo di cantare il soul, il blues, il rock".

 

La citazione di Woodstock da parte di Adelmo Fornaciari si ricollega al periodo e ai temi che stiamo trattando, giacché l’epica versione di With a Little Help from My Friends presentata al Festival è semplicemente l’esplosione live di quanto inciso in studio un poco prima, mentre non è un segreto la profonda stima provata dall’artista emiliano nei confronti di Cocker. “Sugar” è spesso risultato divisivo: alle lodi sperticate dei fan han sempre fatto da contraltare le malignità dei detrattori che l’hanno catalogato come poco originale - eufemismo -. Indubbiamente il musicista è riuscito a ritagliarsi uno spazio e un’immagine notevole, anche a livello internazionale, e, ha contribuito in maniera sostanziale al rilancio in Italia dell’amico Joe al termine degli anni ottanta, quando era finito troppo velocemente nel dimenticatoio.

 

L’innata capacità presente nel ragazzo di Sheffield di interpretare canzoni altrui e renderle uniche, appiccicate alla sua personalità, è evidente in "Feeling Alright" dei Traffic - unica nella raccolta a non essere stata registrata nella capitale inglese, bensì a Los Angeles, con la crema dei sessionman della West Coast -, trasformata in una scorribanda all’incrocio tra il soul e l’R&B e nella morbida, avvolgente "Bye Bye Blackbird", la quale affonda le radici negli anni Venti e viene qui rivitalizzata, diventando la miglior versione moderna fra le tante pubblicate. Certamente la chitarra d’accompagnamento di Tony Visconti, il piano e l’organo di Stainton, l’accecante assolo di Page e alcuni cori in autentico stile retrò alimentano la maestosità dell’arrangiamento. Più semplice e dal profumo di nostalgia la rilettura della dylaniana "Just Like a Woman", impreziosita dal magico Hammond di Matthew Fisher; la ripresa di "Do I Still Figure in Your Life" degli Honeybus lascia invece di stucco per la particolarità di abbinare una delle migliori prestazioni vocali a una modesta pop hit, ulteriore dimostrazione dell’abilità interpretativa di Cocker. Tale maestria rimane in seguito la sua vera ancora di salvezza nei momenti bui e contribuisce a farlo rifiorire negli eighties.

Non deludono "Don’t Let Me Be Misunderstood", più spesso però collegata alle incisioni degli Animals e più tardi ai Santa Esmeralda, come la conclusiva "I Shall Be Released", piacevolmente adagiata sugli archi arrangiati da Nick Harrison e illuminata dall’electric organ di Steve Winwood, altro special guest di notevole caratura.

 

Dopo questo esordio da incorniciare, Joe Cocker prosegue nella sua straordinaria carriera tra alti e bassi, in mezzo a live epici, singoli e album celebri come Mad Dogs & Englishmen (1970), You Are So Beautiful e I Can Stand a Little Rain (1974), abusi di alcool e droga, e con i classici problemi delle rockstar dei sessanta a convivere con gli ottanta, dove solo adagiandosi sul pop - ad esempio "Up Where We Belong" con Jennifer Warnes dalla colonna sonora di Ufficiale e gentiluomo (1982) diventa un successone- riesce a galleggiare. La fortunata cover di "You Can Leave Your Hat On", inclusa nella soundtrack di 9 settimane e ½ e nel suo disco Cocker, lo rilancia nel 1986, gettando le basi per il successivo, passabile, Unchain My Heart. Night Calls e Have a Little Faith aprono bene commercialmente il decennio successivo, mentre Hymn for My Soul (2007) rimane la vetta del nuovo secolo, riportando in alto l’artista nella classifica delle vendite.

Registrare in studio ed esibirsi dal vivo hanno rappresentato costantemente il significato della sua vita, sino alla morte per cancro ai polmoni nel dicembre 2014. Settant’anni vissuti senza sosta, con una forza d’animo incredibile, che l’ha sempre fatto rialzare, e con un modo di sentire profondamente la musica assolutamente unico.

Un uomo colmo di spiritualità e contraddizioni, un uomo che ha trasmesso il suo essere anche con un’accentuata “fisicità”, come se le note gli uscissero dal corpo: agitare le braccia e suonare l'air guitar è rimasto un vero e proprio marchio di fabbrica nelle esibizioni di Cocker, soprattutto nei primi periodi. Molti hanno pensato che fosse “fatto” o pazzo. In realtà, essendo un cantante, non aveva uno strumento da suonare sul palco: quei gesti, quegli spasmi erano solo la sua maniera di comunicare ciò che provava dentro di sé quando scorrevano le note.

 

“Immagino tutto venisse dalla frustrazione di non aver mai strimpellato un piano o una chitarra. Se mi vedete oggigiorno (2013, ndr) non sono più così animato. Comunque era e rimane un modo per tirare fuori ciò che mi arde all’interno, è “eccitazione da musica” ed emerge naturalmente, è un fuoco che viene dritto dal cuore”.