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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
24/07/2023
Live Report
Woodoo Fest, 21/07/2023, Cassano Magnago
Il Woodoo Fest, il bel festival immerso nel verde di Cassano Magnago, quest'anno ha puntato tutto sui dj set, ma qualche ottimo concerto è comunque in programma. Questo il racconto degli ottimi live de Il Cairo, Materazi Future Club e Lucio Corsi visti nella prima parte della serata.

Edizione un po' ridimensionata nel programma, quella del Woodoo Fest di quest'anno, la seconda del post pandemia. La scelta, molto probabilmente per necessità di budget, è stata quella di puntare sui dj set per quanto riguarda gli act principali, e di rinunciare quasi del tutto ai grandi nomi (tranne quello di Cosmo la prima sera che però, appunto, si è esibito alla consolle).

Risultato deludente, penseranno molti, ma potrebbe anche non essere così. Se negli scorsi anni il festival rischiava di configurarsi come una sorta di doppione del Mi Ami, questa svolta nella compilazione della line up potrebbe anche portare verso una connotazione maggiormente personale.

Prendo parte alla seconda giornata, coi cancelli che aprono leggermente in ritardo a causa della pioggia caduta abbondante durante la mattinata, che ha costretto ad un lavoro extra per rendere la venue nuovamente praticabile.

Una volta dentro, ritrovo con piacere lo stesso allestimento che avevo lasciato nel 2019: due palchi, il più piccolo Woodoo Stage, tra gli alberi del bosco, e quello principale, comodamente protetto da una confortevole tensostruttura. Intorno, vari stand di cibo e birra, più l'immancabile merchandising. Un bel posto, adiacente all'area industriale di Cassano Magnago ma immerso nel verde e, per quanto possibile, al riparo dalla calura.

Questo il mio racconto, relativo alla prima parte della serata, quella dedicata ai live.

 

Ad aprire c'è Il Cairo, il progetto di Luca Zaliani da Qt8, Milano. Ha da poco pubblicato il disco d'esordio Maxigusto, che conferma e sviluppa ulteriormente quanto di buono mostrato sul primo EP Scirocco.

Pop deliziosamente retro, un tocco di Italo Disco, chitarre vintage e synth accattivanti, con un gusto non comune per la melodia. Sul palco sono in cinque e, a parte le sequenze in base, è tutto rigorosamente live, tiro notevole nonostante qualche incertezza iniziale.

Partono un po' ingessati, con un microfono che non funziona e qualche stonatura di troppo, poi man mano che si va avanti, complice anche l'entusiasmo del pubblico, lo show decolla e ci si diverte parecchio.

Merito soprattutto di una scrittura di alto livello, che si muove con disinvoltura tra melodie ora anthemiche, ora agrodolci, e testi a tratti malinconici, che riflettono su amori finiti, fasi e luoghi dell'esistenza.

I pezzi nuovi (tra cui le bellissime "Amaro", "Fiore di Agave" e il possibile tormentone "Hasta luego") funzionano benissimo e si incastrano alla perfezione con gli episodi più collaudati come "Posto di blocco", che apre il set, "San Siro" e la hit potenziale "Baby (tutto ciò che vuoi)", che giustamente chiude le danze e che tiene tutti incollati sotto al palco nonostante la pioggia che nel frattempo ha ricominciato a cadere.

Menzione particolare per la vecchia "Padre d'oltremare", racconto di intimità famigliare sulle rive del Baltico, in un'Amburgo dove il St. Pauli vince il derby e dove sono sfociate scelte che forse si sarebbero volute diverse. Un pezzo profondo, lontano dalla patina di leggerezza del resto del repertorio, e che lascia intravedere potenzialità da cantautore vero.

Un progetto decisamente valido, con alcune cose da rivedere in sede live (dovrebbero lasciarsi andare di più nei finali, perché quando ogni tanto lo fanno lo show ne guadagna decisamente) ma che nel complesso potrebbe meritare platee più ampie.

 

 

Intanto sta piovendo fortissimo per cui risulta vincente la scelta di aver allestito sul palco principale il set del Materazi Future Club, che così può regolarmente esibirsi.

Del terzetto milanese si parla da tempo, da quando hanno esordito tre anni fa con un singolo dall'emblematico titolo "De Rossi". Progetto unico in Italia (e probabilmente anche nel resto del mondo), interamente a tema calcistico come del resto già intuibile dal monicker, il debutto Formazione titolare è una raccolta di tracce intitolate ciascuna con il nome di un giocatore, tutti rigorosamente attivi tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, in una sorta di volontà di recupero di una dimensione epica e romantica di questo sport che a detta di molti oggi si sarebbe persa.

Dal vivo non li avevo mai visti ma mi hanno convinto in fretta: show diritto ed essenziale, i Synth in base, due chitarre e un paio di tamburi, il ritmo martellante del loro Post Punk denso di Wave che si unisce a frammenti celebri di telecronache e interviste (per fare un esempio, il concerto comincia così come comincia il disco, con la voce di Fabio Caressa che commenta il goal di Materazzi contro la Francia nella finale mondiale del 2006).

È un'esibizione curata anche dal punto di vista visivo: i nostri indossano magliette a tema calcistico e protezioni facciali come quella resa celebre dall'attaccante del Napoli Osimhen, sul palco c'è una sciarpa del Milan ed una del Bayern Monaco, sullo schermo scorrono, oltre ad animazioni di stampo psichedelico, immagini iconiche come quella del goal all'Inter che rivelò Cassano al mondo, il celebre pallonetto di Totti a San Siro, la tripletta di Rossi nello Fiorentina-Juve 3-2 del, la testata di Zidane a Materazzi nella finale di Berlino.

Musica altamente ballabile, che procede per piccoli nuclei melodici che si ripetono, le chitarre a tratti in primo piano a creare un mood più aggressivo, mentre in altri momenti sono i riff suonati dai Synth a fornire il tema principale. Il tutto portato avanti con un’attitudine libera e scanzonata, che li porta anche ad interagire col pubblico, chiedendo per esempio suggerimenti sui giocatori di cui potrebbero parlare nel prossimo disco (divertente quando una ragazza urla il nome di Coco e loro rispondono: “Non è un po’ troppo trash?”).

Tra i brani eseguiti, menzione speciale per “Luciano/Eriberto”, con la vicenda dedicata al brasiliano ex Bologna narrata da Max Collini (in questa sede purtroppo penalizzata dai volumi alti degli strumenti).

Un set davvero piacevole, che ha fatto ballare anche persone apparentemente non troppo vicine al sound originario del gruppo.

 

 

Il mio primo ricordo di Lucio Corsi risale al 2014, quando Vetulonia Dakar era appena uscito e lui, ventunenne, si esibiva nel suo primo concerto importante, sul palco Collinetta del Mi Ami nel corso di un pomeriggio caldissimo. Chitarra e voce, tutti i brani da quell’EP che in quel periodo stavo ascoltando affascinato, un po’ di timidezza ma una sicurezza nei propri mezzi già allora invidiabile.

Nove anni dopo, a vederlo suo palco col volto pitturato di bianco come il Bob Dylan della Rolling Thunder Revue, agghindato a metà tra Marc Bolan e il Bowie di Ziggy Stardust, si capisce che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. L’artista maremmano è oggi uno dei nomi di punta di quella scena italiana “non allineata”, che alle sirene della Trap e dell’It Pop ha preferito una rivisitazione libera e sperimentale della tradizione cantautorale, andando una proposta che, se non proprio del tutto originale, scaturisce da un amore a 360 gradi per la musica suonata e vissuta nella sua totalità.

Bestiario musicale, Cosa faremo da grandi, La gente che sogna, sono i tre capitoli attraverso cui Lucio ha trovato la sua maturità e ha conquistato pubblico e critica, dimostrando che si possono conquistare le nuove generazioni anche suonando musica “datata”.

Quest’ultimo disco prende le mosse dal Glam britannico, quota T. Rex e Roxy Music, ed è dunque normale che il concerto vada in quella direzione, abbia quei suoni lì. Sul palco sono in sette, la band è la stessa che suona con lui sin dai tempi del liceo, è sicura e affiatata, si capisce che si divertono un sacco. Ci sono tre chitarre (quella di Lucio compresa), un piano elettrico e una tastiera; unite ad una sezione ritmica bella potente, creano un muro di suono davvero imponente, anche se nelle prime battute un po’ troppo confuso (migliorerà parecchio in corso d’opera).

Protagoniste assolute sono ovviamente le tracce dell’ultimo disco, che trascinano non poco tra riff aperti, fraseggi ultra melodici e ritornelli irresistibili: “Magia nera”, “Glam Party”, “La bocca della verità”, “Danza classica”, più gli episodi meno irruenti, dove compare la chitarra acustica, come “Radio Mayday” e “Astronave Giradisco” vengono accolte con entusiasmo da un pubblico giovanissimo che salta, balla e canta, una reazione che francamente non mi aspettavo di questo livello.

Il gruppo tira parecchio anche quando i toni si fanno più delicati e si vira sul Folk: “Trieste”, per esempio, ha una dinamica sconosciuta alla versione in studio, mentre “Il lupo” è pazzesca per come parte in sordina e si trasforma in un’orgia elettrica dove chitarre soliste ed armonica si rincorrono frenetiche.

L’intermezzo acustico in cui Lucio rimane da solo sul palco con la sua chitarra ricorda evidentemente gli esordi ma oggi è illuminato da una consapevolezza nuova. “Senza titolo”, “La lepre”, l’inedita (e bellissima) “Francis Delacroix”, prive dell’accompagnamento della band permettono di apprezzare ancora di più una scrittura che sa farsi visionaria e surreale (“Questa è la caratteristica che apprezzo nella musica, che cerco e che per me è essenziale – ha dichiarato di recente – che ci racconti il mondo in un altro modo, che ci inganni, perché le canzoni che mi raccontano il mondo così com’è mi fanno incazzare da morire, sono uno spreco”), unendo l’immacolata fantasia di un bambino alla navigata maturità di un autore adulto. Stessa cosa quando va al piano, per una sentita “Maremma amara” che è insieme omaggio alla sua terra d’origine e prova brillante del saper attualizzare la tradizione.

Si conclude con una versione fortemente elettrificata della vecchia “Altalena Boy”, poi gli dicono che ci sono ancora cinque minuti e rimangono tutti lì un po’ sorpresi. Alla fine si opta per un bis (“Un bis vero – dice – dove suoniamo canzoni che abbiamo già fatto”) e devo dire che, nonostante avessi preferito ascoltare “La gente che sogna”, inspiegabilmente lasciata fuori dalla scaletta, questa seconda versione de “La bocca della verità” è decisamente meglio della prima, molto più potente e con un finale di improvvisazione tirato fino allo spasimo.

Un grandissimo concerto, e se pensiamo che Lucio Corsi ha appena 30 anni, non possiamo che pregustare impazienti quello che succederà in futuro.

 

 

Pollice alzato anche per il Woodoo Fest che, sebbene sia rimasto solo per poche ore, mi ha dato una bella impressione di energia e vitalità. Tanta passione, soprattutto dei numerosi volontari che si sono prodigati in ogni luogo, dalle operazioni d’ingresso, al campeggio, fino a quelli che documentavano il tutto con foto e video; e notevole anche la pronta risposta al maltempo, che ha permesso non solo di rispettare gli orari d’inizio ma anche di salvare la giornata in corsa. Bravi davvero, magari il prossimo anno riuscirò a fermarmi di più.