Sembra ieri. Correva l’anno 2014, gli USA si godevano il secondo mandato di Obama e Pharrell Williams surclassava ogni record mondiale di ottimismo, nonché di incassi, con quel suo inno alla gioia in grado di coinvolgere in un battimano globale e virale donne, uomini e bambini danzanti a ogni latitudine e longitudine, un fenomeno ampiamente documentato su Youtube. “Happy” è diventata una hit multi-miliardaria come il film di cui è stata la colonna sonora, quel “Despicable me” che ha preceduto l’elezione di quel “Despicable him” a presidente successivo, una disdetta che ha fatto cambiare l’umore a molti artisti statunitensi, Williams in primis. Vien da chiedersi se cantare a mari e monti di stare svegli tutta la notte per essere fortunati non porti davvero sfiga.
Dai tempi di “Girls”, il più recente lavoro solista del geniale produttore statunitense primo in classifica quasi ovunque, la situazione è precipitata. Quale miglior causa per rimboccarsi le maniche e darci dentro per parlare di cose serie? Non c’è tempo da perdere: questo è un lavoro per i N.E.R.D., deve aver pensato Pharrell Williams.
Ed eccoci così al 2017 e al nuovo album della band che, più di ogni altra, sa rivoltare la musica afro-americana come un calzino. I N.E.R.D. sono la conferma di quanto la musica di matrice black, qualunque essa sia, viaggi spedita verso il futuro a una velocità doppia rispetto al rock. Probabilmente ci sono meno stereotipi, meno linee guide entro le quali esprimersi, maggiore attitudine a mettersi in gioco ogni volta, un mercato più redditizio e meno bacchettone del nostro e un’industria a supporto che consente la sperimentazione a scatola chiusa.
E se Pharrell Williams solista, da questa prospettiva, ci manda le sue produzioni dal futuro, i dischi dei N.E.R.D. sono così avanti che nemmeno per i palati più usi all’alternative rap risulta facile orientarsi lungo una scaletta di composizioni così destrutturate.
Con “No-one Ever Really Dies”, un palese acrostico del nome della band, tornano sulla scena i N.E.R.D. a sette anni di distanza dal precedente “Nothing” e nella formazione al completo, con Chad Hugo (fondatore insieme a Williams anche dei The Neptunes) e Shae Haley. Oltre alle tematiche tutt’altro che pop, il nuovo lavoro è caratterizzato da una nutrita compagine di ospiti di indubbio valore, per lo più esponenti della scena rap e r’n’b come Rihanna, André 3000, Kendrick Lamar, M.I.A., Gucci Mane, Wale, Future, fino a un cameo di Ed Sheeran.
I primi tre singoli estratti dal disco, usciti a fine 2017, sono altrettanti pugni nello stomaco e confermano lo spirito di protesta e di disagio con cui “No-one Ever Really Dies” è stato concepito. Per noi caucasici europei è più facile afferrare il senso guardando il video di “Lemon”, cantato con Rihanna, oppure quello della folle corsa di “1000” tra gli USA dei tumulti razziali e della nuova destra estrema, che ai tempi di Trump sta trovando spazio per rialzare la testa, e soprattutto ascoltare “Do not Do not Do It”, la canzone ispirata dall’uccisione di Keith Scott a opera dalla polizia a Charlotte l'anno scorso, triste quanto esemplificativo episodio ripreso dallo smartphone della moglie, testimone oculare, mentre registrando l’esecuzione usava le stesse parole del titolo per implorare gli agenti di non farlo.
Un materiale scottante proposto nella forma in cui i N.E.R.D. sono insuperabili. Brani dalla struttura imprevedibile con cambi improvvisi, inserti apparentemente casuali, nessun clichè hip hop a cui siamo abituati, nemmeno nelle occasioni in cui - considerando il featuring - ce ne sarebbero tutte le ragioni: con i N.E.R.D. anche i pezzi da novanta della scena rap si adattano alle non-regole del gioco.
Canzoni come “ESP” che, a metà, dimezzano il beat e si trasformano in un trap agli antipodi di quanto successo prima, o "Rollinem 7's" in cui il capovolgimento di fronte è ancora più eclatante, o ancora come “Kites” in cui il contributo di M.I.A. costituisce un vero valore aggiunto, sono capitoli a sé di una versatilità artistica davvero unica e che preludono alla due tracce conclusive che portano i N.E.R.D. a cimentarsi con contaminazioni assenti altrove, nel disco: il rock suonato con timbriche electro di "Secret Life of Tigers" e il roots reggae, sintetico quanto la canzone precedente, di “Lifting you”.
Non è facile per noi (o, se preferite, parlo per me) comprendere appieno un disco - e un artista - così distante dai canoni della musica pop, anche contemporanea, e coglierne la portata dirompente nei contenuti e nello stile. La trasformazione continua della musica afro-americana, favorita dal vivaio artistico delle sottoculture che proliferano senza soluzione di continuità nei sobborghi delle metropoli statunitensi, può risultare apparentemente depotenziata in un packaging azzimato come questo, complici le comparsate delle pop star di grido orchestrate da un professionista attento come Pharrell Williams, a tutti gli effetti il nuovo Prince sia per il valore artistico che per il suo fiuto da produttore.
E probabilmente di un album come questo ci colpiscono solo le stranezze, la schizofrenia compositiva, i repentini stop-and-go ritmici, i barocchismi elettronici e l’irregolarità melodica, rispetto agli standard della musica afro-americana come la conosciamo. In realtà, tutto questo è ampiamente sufficiente a giudicarne positivamente la qualità. “No-one ever really dies” è un album divertente come pochi, nell’ambito del pop. Se c’è di più, e non siamo in grado di coglierlo perché per noi è ancora tutto troppo acerbo, tanto di guadagnato.