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REVIEWSLE RECENSIONI
17/01/2018
Anderson East
Encore
Il repertorio in scaletta è puro southern soul, riletto però con una sensibilità e una passione che fanno la differenza

Ci sono ottimi musicisti che, per quanto facciano, non riescono a uscire dall’anonimato o dalla ristretta cerchia della nicchia. Altri, invece, per i quali, a un certo punto della carriera, le cose cambiano radicalmente, magari per un colpo di fortuna, per una crescita improvvisa di popolarità innescata da una canzone o un video, oppure, più semplicemente, perché grinta e pertinacia, alla fine, riescono ad averla vinta.

Non esiste un manuale per il successo né regole che valgano per tutti: il music business è una brutta bestia da domare e spesso basta davvero poco a essere disarcionati. Di sicuro, Anderson East ha fatto tutto quello che era nelle sue possibilità, riuscendo a trovare la formula vincente e l’abbrivio verso un futuro dorato. Trent’anni, originario di Athens (Alabama), Anderson a cominciato a masticare musica fin da piccino. Suo nonno, infatti, era prete in una chiesa battista, suo padre cantava nel coro di una chiesa e suo madre suonava il pianoforte. Sempre in chiesa.

La religione, Dio e appunto, la chiesa: nel Sud degli States, anche se non sei nero, spesso il connubio fra fede e musica risulta essere indissolubile. E così è stato per il giovane East, che ha studiato, ha imparato a suonare il piano e a comporre canzoni, ispirandosi ai suoi genitori e facendo il pieno di quella musica soul e gospel che in Alabama è strettamente connessa al Dna e all’aria che si respira. La carriera di Anderson è iniziata nel 2009, con un paio di dischi autoprodotti e un paio di Ep, che hanno formato il carattere del ragazzo e hanno rodato un talento, come si suol dire, cristallino.

Ed ecco la svolta: il talento viene notato, East firma con l’Elektra, Dave Cobb lo prende sotto la sua ala protettrice, esce Delilah e il ragazzo fa il botto. Quello grosso. Da quel momento le cose cambiano radicalmente. East partecipa a popolari talk show, una sua canzone viene inserita nella colonna sonora di Cinquanta Sfumature di Grigio (che è una merda di film, ma è anche quello che gli americani chiamano high profile movie: porta grana e porta fama), dà vita a performance live irresistibili e, gossip non olet, si fidanza con la stellina del country, Miranda Lambert, finendo sulle pagine di Us Weekly e People. Anderson, però, è un ragazzo con la testa sulle spalle e non si fa concupire dalle sirene del successo. Si rimette al lavoro e, fra una comparsata televisiva e un charity album (partecipa a Cover Stories, tributo benefico a un disco di Brandi Carlile) esce con questo nuovo Encore.

Ovviamente, East si è tenuto stretto Dave Cobb, che mette mano anche alla produzione del sophomore, con un lavoro fantastico sul suono, che risulta vintage e moderno allo stesso tempo, e un utilizzo misuratissimo ma decisivo, di archi e fiati, che esaltano il timbro vocale del songwriter di Athens. Aroma di caffè caldo al mattino, accompagnato da una sigaretta e un cucchiaino di mele: ruvida e al contempo carezzevole, la voce di East trova sempre la strada per arrivare al cuore delle emozioni. Il repertorio in scaletta è puro southern soul, riletto però con una sensibilità e una passione che fanno la differenza. Non ci sono sostanziali differenze rispetto al disco d’esordio, e i riferimenti (Stax, Otis Redding, Van Morrison, etc.) restano invariati. Tuttavia, a parte la più lunga durata del minutaggio, Encore possiede una maggiore consapevolezza, una qualità superiore delle composizioni e una più spiccata inclinazione mainstream.

Il disco alterna ballate caldissime (la classicissima If You Keep Leaving Me, la vanmorrisiana King For A Day) a sferzanti impennate R&B (Sorry You’re Sick, Surrender), in cui scintillano fiati grassi che portano dritto al centro del dance floor. Havin’ a party! I fiori all’occhiello della scaletta sono il singolo Girlfriend, groove funky irresistibile, arrangiamento suntuoso e assolo di moog che manda in estasi, All On My Mind, incedere sensuale, visione moderna, pezzo stratosferico, Without You, ballatone strappa mutande dal retrogusto sixties (qualcuno ha detto A Whiter Shade Of Pale?) e la conclusiva Cabinet Door, intima, crepuscolare e intensa. Un lotto di canzoni impressionanti, dunque, a cui la mano di Dave Cobb ha aggiunto ulteriore verve.

Se è vero, come canta Caparezza, che “il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un’artista”, Anderson ha brillantemente superato l’ostacolo, proponendosi come una delle più eccitanti realtà soul oggi in circolazione.