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REVIEWSLE RECENSIONI
19/01/2018
Glen Hansard
Between Two Shores
È il terzo lavoro in studio per il cantautore irlandese e questa sua passione per la navigazione da cui avrebbe attinto per scrivere i brani me la ricordo perfettamente...

Se davvero, come dichiarato nelle note stampa, il titolo “Between Two Shores” rappresenta l’ideale distanza che c'è tra la partenza e l’arrivo, l’esatto momento di un viaggio in cui si può decidere se andare avanti o tornare indietro, allora si potrebbe dire che Glen Hansard l’abbia davvero raggiunto con questo disco.

È il terzo lavoro in studio per il cantautore irlandese e questa sua passione per la navigazione da cui avrebbe attinto per scrivere i brani me la ricordo perfettamente: fu forse durante la prima volta che lo vidi dal vivo, quando fece morire tutti dal ridere raccontando di quella notte in cui prese la sua barca assieme ad un amico ed entrambi ubriachi fradici, andarono a schiantarsi contro un faro.

Ma d’altronde lui è così: i suoi concerti sono anche e soprattutto un momento per incontrare e farsi incontrare e ho il sospetto che il fatto che così tanta gente abbia preso ad amarlo negli ultimi anni, lo si debba in primo luogo alla sua innata simpatia, al suo essere prima di tutto una persona autentica e solo in un secondo momento un musicista e un cantautore.

È un concetto che tengo a ribadire ogni volta che mi tocca scrivere di lui (e l'ho già fatto parecchio, ormai) perché mi pare che non lo si possa capire in pieno se non lo si considera. Ecco, dicevamo che con questo disco Glen Hansard sarebbe arrivato al bivio: la scelta, mi pare, si gioca tra il continuare a scrivere canzoni belle e profonde oppure adagiarsi sul suo personaggio, sul busker gioviale che ama la gente, che fa un sacco di Jam Session con i suoi amici musicisti, che non ha mai perso il contatto con le sue radici. Chi volete davvero? Il Glen Hansard autore o il protagonista di “Once”? Non mi diverto a scrivere queste cose ma dopo ripetuti ascolti di “Between Two Shores” non mi rimane altro che ammettere che forse, d’ora in poi bisognerà dare ragione a quelli (e non sono pochi) che hanno sempre sostenuto che l’ex The Frames sia grandissimo come interprete, molto meno come songwriter. Un’affermazione che ho sempre rigettato, argomentando con la bellezza dei dischi della sua prima band, dei due lavori realizzati assieme a Marketa Irglova e dei suoi due dischi solisti.

Stavolta la magia non riaccade. Registrato e prodotto per la prima volta da lui solo, ai Black Box Studios in Francia ma anche con rapide session tra New York e Chicago, i musicisti sono quelli di sempre (in prima fila il suo vecchio amico e collega David Odlum) ma c'è stata qualche sporadica collaborazione con Brian Slade, Thomas Bartlett e Brad Albetta e Rob Moose. Non esattamente gente di primo pelo, dunque; il che, unitamente alla band che da qualche anno lo accompagna dal vivo, garantisce un livello qualitativo altissimo. In effetti su questo punto non c'è molto da dire: questo è un disco suonato e registrato benissimo, ha quel bel feeling live di musicisti chiusi a divertirsi in una sala prove e la limpidezza dei suoni è un qualcosa che davvero lascia a bocca aperta.

Ma davvero abbiamo bisogno di emozionarsi per questo, nel 2018? Davvero abbiamo bisogno di sottolineare che la voce di Glen è ancora una volta meravigliosa, in grado di dare forma alle parole ed evocare sensazioni? Davvero dobbiamo farlo? Se volete facciamolo, ma non pretendiamo di giudicare il disco da questi parametri, per favore. Perché quello che manca a “Between Two Shores”, per quel che mi riguarda, sono proprio le canzoni. Ha dichiarato di avere realizzato il tutto in poche settimane: se davvero è così, potremmo aver trovato la spiegazione di tanta banalità. Perché sì, questo disco è banale anche se mi costa ammetterlo. È come se a questo giro Glen Hansard avesse messo in fila tutti gli elementi principali del suo songwriting e li avesse rimestati assieme ai suoi musicisti fino a tirarne fuori 45 minuti che saranno in grado di colpire solo chi lo ascoltasse oggi per la prima volta. E forse nemmeno loro, per la verità.

Si parte in maniera energica con “Roll On”, un Blues grintoso sostenuto dai fiati che funzionerà senza dubbio benissimo dal vivo ma che non è nulla molto di più che uno standard. C'è un altro brano che gioca ad alzare il ritmo, quella “Wheels On Fire” già uscita come singolo qualche settimana fa e che è la solita, ennesima tirata politica su quanto siano cattivi Trump e la sua amministrazione (l’omologazione degli artisti su queste tematiche è al limite dell’imbarazzante ma non è questo il luogo per sviscerare l’argomento, fermiamoci qui). Anche qui fiati in evidenza, ritmo trascinante nel ritornello, un brano che complessivamente funziona e fa muovere il piede ma che non ha nessuna pretesa di andare oltre a delle piacevoli sensazioni.

I restanti otto brani si muovono sulle coordinate della ballata acustica, con il Van Morrison di “Astral Weeks” e “Moondace” a fare da punto di riferimento molto più che in passato (basti pensare alle progressioni di “Movin’ On” o “Lucky Man”, con le loro acrobazie vocali). Ci sono i fiati, ci sono gli archi, ci sono le chitarre acustiche, ogni tanto compare il pianoforte. Un disco spesso e volentieri in tono minore, dove le rotture sentimentali, le difficoltà di superare il dolore, la scommessa che il tempo possa davvero curare le ferite, sembrano essere i temi portanti che vengono fuori ad una prima lettura dei testi.

È la voce di Hansard a tenere insieme il tutto ma non ci sono momenti in cui la perfezione della forma serva a rivestire un contenuto di rara profondità e urgenza. Non c'è una “Her Mercy”, per dire. Non c'è una “Lowly Deserter” e neppure una “Bird of Sorrow”. Ci sono tanti spunti gradevoli ma è tutto troppo simile ad una sessione di riscaldamento per essere credibile. Che sia l’acustica minimale di “Why Woman”, l’andamento in punta di piedi di “Setting Forth”, l’elegia malinconica e rassegnata di “One of Us Will Lose”, il Folk autocompiaciuto di “Your Heart Is Not in It” (che fa troppo il verso a “Winning Streak” per poter essere considerata fino in fondo), la conclusiva “Time Will Be The Healer” (che è stato anche il primo singolo ad essere pubblicato, a fine settembre) che rappresenta un po' la summa di tutto quello che potremmo aspettarci da Glen Hansard, compresi i suoi magnifici crescendo vocali e che proprio per questo, pur suonando tanto bene, ci mette pochissimo a svelare il trucco.

È un esercizio di composizione, una raccolta di outtake, un insieme di canzoni che può funzionare solo se ascoltato distrattamente, scintillante nella confezione ma che non può avere assolutamente la capacità di durare, di lasciare un segno.

Si guadagna la sufficienza piena solo perché la caratura dei musicisti coinvolti e il mestiere che c'è dietro alla scrittura difficilmente avrebbero potuto produrre un risultato inferiore. Da uno come lui era tuttavia lecito attendersi molto di più.

Rimarranno i concerti, per fortuna: dal vivo Glen Hansard ha ben pochi rivali e le sue esibizioni sono happening pieni di gioia dove tutto può accadere. Speriamo almeno di poterci consolare così.