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REVIEWSLE RECENSIONI
10/04/2018
Kacey Musgraves
Golden Hour
La Musgraves dimostra di avere un’ottima penna, sfornando un filotto di canzoni di facilissima presa, dal sapore decisamente radiofonico, le cui irresistibili melodie trovano moduli espressivi diversi in un quadro d’insieme che comunque risulta assai omogeneo.

Due album ai vertici delle classifiche di genere statunitense (Same Trailer Different Park del 2013 e Pegeant Material del 2015), un Grammy e due CMA Award vinti, un disco di canzoni natalizie, pubblicazione che negli States è considerata una sorta di certificazione di popolarità (A Very Kacey Christmas del 2016),  varie comparsate televisive e il palco condiviso con artisti del calibro di George Strait, John Mayer, Loretta Lynn, and more, sono il biglietto da visita della ventinovenne Kacey Musgraves. La quale, fin dagli esordi è stata inserita nel movimento denominato outlaw country, soprattutto per liriche impegnate e disinibite, con cui di volta in volta la songwriter texana ha trattato temi quali l’omosessualità, il sesso, le droghe e la religione.

Un paio di duetti con l’amato Willie Nelson hanno definitivamente sancito l’appartenenza al genere, anche se poi, a ben vedere, la scrittura della Musgraves ha spesso sconfinato nella musica pop più radiofonica. Ed è proprio il pop a segnare definitivamente i contenuti di Golden Hour, terzo album della giovane e fortunata cantante: una svolta clamorosa e decisiva, che relega le sonorità country nell’utilizzo di qualche strumento tradizionale (banjo, lap steel, etc) e poco altro.

Un cambio di rotta deciso, che ha prodotto immediatamente i suoi frutti, visto che l’album in pochi giorni è schizzato ai vertici delle classifiche americane (quarta piazza di Billboard 200 nel momento in cui sto scrivendo) e ha ricevuto critiche lusinghiere sia dalla stampa americana che da quella inglese (paese in cui la Musgraves conosce un importante seguito).

Si astengano, quindi, gli appassionati del roots americano: in queste tredici canzoni non ne troverebbero traccia e resterebbero parecchio delusi. Chi, invece, ama il pop di classe, mainstream e furbetto, ma niente affatto banale, avrà più di un motivo per essere soddisfatto dal disco. La Musgraves, infatti, dimostra di avere un’ottima penna, sfornando un filotto di canzoni di facilissima presa, dal sapore decisamente radiofonico, le cui irresistibili melodie trovano moduli espressivi diversi in quadro d’insieme che comunque risulta assai omogeneo.

Kacey, dunque, ha definito uno stile, una sorta di ibrido fra Katy Perry e Ann Lee Woomack, continuando a scrivere i propri testi outlaw, senza però servirsi di quelle componenti country che aveva segnato le precedenti uscite. Golden Hour palesa qualche difetto, certo: un paio di pezzi suonano come banali riempitivi (Velvet Elvis e Wonder Woman) e l’eccessiva lunghezza del disco (13 canzoni per 46 minuti) annacqua un poco la forza di un impianto melodico confezionato ad arte.

Sono tante, infatti, le canzoni che, nella loro schiettezza pop, risultano godibilissime: Space Cowboy, autentico tormentone da quasi un milione di visualizzazioni su Youtube, la riuscita commistione fra elettronica e strumenti tradizionali di Oh, What A World, la primaverile freschezza di Lonely Weekend, gli accenti malinconici del folk pop dell’iniziale Slow Burn, la diafana filigrana soul della title track, le delicatezze pianistiche di Mother e Rainbow e la dance retrò di High Horse, fulminante riempipista pubblicato come terzo singolo. Un disco assolutamente riuscito, tanto che gli autorevoli Guardian e The Indipendent hanno entrambi premiato la Musgraves con cinque scintillanti stellette. Un plauso forse eccessivo, ma un giudizio che comunque testimonia l’ottimo lavoro fatto dalla texana anche lontano dai consueti registri. Leggerezza pop a tutto tondo da ascoltare senza preconcetti.