Io vorrei partire da questa frase che ritroveremo citata alla fine di questa intervista: “Siamo solo nani sulle spalle di giganti”.
Ed è così che Renzo Stefanel, giornalista rock e scrittore, parte dalla constatazione che in questa quotidianità mediamente alienata dai tanti vincoli (o problemi che dir si voglia) quotidiani, si possa in un qualche modo cavalcare l’onda dell’adrenalina rock per tornare a “farci sotto di vita”; almeno per chi ancora oggi ha del rock nelle vene. Uno sfogo insomma, un ricerca di personale bellezza rock.
Questa, in una sintesi assai superficiale, è l’ispirazione che ha condotto Renzo Stefanel a raccontarci grandissime storie maledette del rock, sfogliando le pagine più affascinanti degli anni ’60 e ’70 facendo qualche timido capolino negli ’80, e anche nei ’90 se proprio ci si alza sulle punte dei piedi. Anzi qualche riga addirittura arriva a lambire i giorni nostri. Un lungo viaggio “americano” dal titolo “Sesso, droga e calci in bocca”, racconti distribuiti e organizzati in due libri pubblicati da GIUNTI Editore.
Una lettura inevitabilmente cruda, accattivante di quel fascino - manco a dirlo – rock, con l’unico piglio che ci voleva e cioè quello dal sapore vagamente beat generation, un po’ on the road e un po’ film cult alla Quentin Tarantino. E di similitudini ne potremmo tirar via tantissime, basta non essere figli di questa attualità digitale e di rimpasti ed emozioni delegate alle macchine. Resta il fatto che questi due libri si leggono, anzi si divorano con gusto e interesse fino all’ultima pagina. Storie maledette del rock dicevamo, storie di eccessi reali, storie vere e aneddoti ricostruiti senza finzioni comode per la vendita, per i perbenismi, per i cultori delle mitologie invincibili, un lavoro insomma di ricerca certosino e faticoso che serve anche a smitizzare alcune esagerazioni colossali a volte fin troppo utili al mercato.
Renzo Stefanel fa il piacione, sa scrivere con sex appeal e spesso ci strappa una risata di gusto. Ma comunque non mitizza nessuno, non insegue chimere e falsi miti, restituisce la carne alle propria ossa. “Sesso, droga e calci in bocca” è il vero “romanzo” rock di vita vissuta che può anche servire a tantissimi per capire come un tempo, la musica la si viveva sulla propria pelle prima ancora che farla arrivare alle orecchie. Sono d’accordo con Stefanel quando dirà che i giovanissimi - eccezioni a parte - eviteranno simili letture proprio per quella immensa distanza sociale che oggi i computer e i media hanno inventato con somma intelligenza per il mercato. Ma sono anche dell’opinione che, fascino letterario a parte, questi due libri possano testimoniare alle nuove generazioni (e non solo) quanta importanza e che forza sociale aveva l’espressione musicale, una caratteristica che oggi ha lasciato il posto all’indifferenza. Con “Sesso, droga e calci in bocca” tornano a vivere storie e dinamiche che oggi non potrebbero mai e poi mai aver ragione di esistere. Purtroppo e senza per fortuna. Tornano a vivere le storie. E noi con loro (almeno per quelli degli “anta”, dico).
Innanzitutto partiamo dal tema. Gli eccessi della vita di queste grandi star mondiali è stato forse uno degli argomenti più trattati dalla letteratura di tutti i tempi. Leggendo questi due libri si capisce ampiamente ma vorrei che fossi tu a svelarci il segreto: cosa ti ha spinto a seguire questa strada ormai ampiamente asfaltata?
L’insoddisfazione. Leggevo grandi biografie di artisti stranieri, specie non tradotte, purtroppo. Leggevo libri di aneddoti rock in italiano dove mancava la vita: suoni, colori, odori, profumi, nomi, circostanze precise. Tutto calato in una nowhere land senza contorni definiti. Trattazioni degli eccessi del rock sempre con una sfumatura di distaccata benevolenza parrocchiale: “Eh, sti birbaccioni...”. Invece io volevo leggere in italiano della carne, del sangue, del sudore, della lotta e dell’amore. Volevo ritrovare l’eccitazione che provavo a 14 anni, sul finire degli anni 70, quando prendevo in mano i giornali musicali dell’epoca e i libri musicali dell’epoca. I brividi. Non trovavo nulla del genere. E allora ho pensato di scriverne io. Il titolo dei due volumi, “Sesso, droga e calci in bocca”, allude proprio a questo: il rock non è mai stato buono, istituzionalizzato, morale, mai, per fortuna. Anche se il Bono Vox e il Bruce Springsteen di oggi sono delle figurine di cartapesta. Spero di essere riuscito nel mio intento.
Quanto è stato grande e impegnativo il lavoro di mettere in ordine tutti i documenti e le testimonianze per ricomporre il puzzle?
È stato piuttosto impegnativo: ha comportato la schedatura di centinaia di aneddoti trovati in varie biografie, il che mi ha portato via diversi mesi. Quindi si è trattato di scegliere gli aneddoti con cui costruire una storia - perché volevo raccontare storie, non dare dei semplici bozzetti - e verificare i dati, incrociare le versioni, scartare la leggenda e andare al cuore nudo e crudo dei fatti per quanto è possibile dato che le testimonianze possono essere involontariamente alterate dagli anni trascorsi o dalle sostanze assunte. Per ognuno dei due volumi ci sono voluti nove mesi di studio matto e disperatissimo.
Domanda piccante: pensi che ci siano delle cose che, per quanto realmente testimoniate e documentate, siano false?
Nel primo volume di “Sesso, droga e calci in bocca” smonto appunto una di queste leggende infondate, ovvero la Ur-storia che Keith Moon si è inventato per dare corpo al proprio personaggio di distruttore di hotel. Va detto che, se la storia primigenia è inventata, poi il ragazzo si è applicato con impegno riuscendo a essere all’altezza della fama che aveva sparso di sé. In generale ci sono storie evidentemente false, come la trasfusione totale cui si sarebbe sottoposto Keith Richards per disintossicarsi, assurda per semplici motivi medici: non è il sangue che deve essere pulito dalle sostanze, ma sono i produttori e recettori di endorfine del cervello a dover essere resettati. Per tutte le storie, poi, valgono le involontarie inesattezze di cui sopra.
Qualcosa deve pur essere rimasto fuori o no? Qualche dimenticanza o qualcosa a cui le tue ricerche non sono arrivate?
Ci sono un sacco di storie bellissime e poco note là fuori che aspettano di essere raccontate. Ma magari non riguardano artisti di grande richiamo oppure sono troppo frammentarie. Ma anche quelle che riguardano artisti famosi hanno bisogno di una forte richiesta del pubblico perché vengano scritte e pubblicate. Per cui invito tutti gli interessati a mandare esaurite in tutte le librerie tutte le copie dei due volumi di “Sesso, droga e calci in bocca”. E poi ho finito sigari e rum.
Manca tantissima parte degli anni ’90 o sbaglio? Come a dire che dalla fine degli ’80 è morto un certo tipo di “vita Rock"?
Vero, manca tantissima parte degli anni ’90, ma questo è dovuto al fatto che la memorialistica relativa a vent’anni fa ancora scarseggia. C’è qualcosa nel secondo volume di “Sesso, droga e calci in bocca”, con le storie di Oasis e Primal Scream. In generale ritengo che gli anni ’90 siano stati in realtà l’ultimo grande momento rock. Il rock, come l’ho amato io, finisce nel 1997 con “Ok Computer” dei Radiohead, grande disco che amo, ma chiude un ciclo: quello del rock.
Mi incuriosisce la forma: se il primo volume punta il dito sui singoli artisti, il secondo ha una catalogazione - passami il termine - per “generi” di artisti o per periodi comuni. Come mai questa differenza?
Semplicemente nel secondo volume volevo dare una struttura che al primo mancava. Allora ho pensato di riprodurre degli ambienti: la rivalità tra Jerry Lee Lewis ed Elvis Presley; la “big family” del jet set rock tra 1964 e 1975; la dura realtà newyorkese degli anni 70; la Cool Britannia degli anni ’90. Con qualche interessante divagazione.
Veniamo ai temi sociali. Siamo consci che le nuove generazioni neanche conoscono la maggior parte dei dischi che vai citando strada facendo, gli artisti quelli sì, basta che siano i più blasonati. Per esempio direi che i Clash già sono su una linea di confine. Comunque sia: quale pensi che sia il vero valore aggiunto che arriva a loro dopo queste letture? Cosa vorresti lasciargli in “eredità”?
Non credo che le giovani generazioni leggeranno mai questi libri, fatte le dovute eccezioni. Il rock non è più la musica di questo tempo. Ha cessato di esserlo alla fine degli anni ’90, come dicevo. È seguito un periodo in cui l’hip hop ne ha preso il posto sopravvivendogli come colonna sonora della società contemporanea. Oggi anche l’hip hop è stato spazzato via dalla trap, una musica che, al di là dei gusti, segna un gap generazionale fortissimo proprio come il rock’n’roll degli anni ’50, non fa prigionieri e non conserva né conosce volutamente nulla del passato. Se mai qualche giovane, ma giovane veramente, leggesse questi libri, vorrei che gli arrivasse il senso che c’è stata un’epoca di Dei e giganti, in cui l’avidità di vita non andava a braccetto con la supina accettazione del presente. Un mondo che era immerso in un eterno presente che parlava di futuro e immortalità. Che poi, come i Titani, abbia fallito, non è importante. È importante che ci sia stato.
Ho forte l’impressione che la decadenza musicale corra parallela anche ad un certo modo di vivere la vita. In soldoni penso che il Rock di oggi sia decisamente più “educato” di quello che era un tempo. Cioè come dire: ieri con quel Rock di eccessi viveva un popolo attorno che era più reattivo, curioso, totalmente affamato di musica, randagio della vita e coraggioso di nuove avventure. Oggi qualcuno dice che il Rock è morto ed è altrettanto evidente un piattume sociale fatto di indifferenza e di scarsa cultura un po’ su tutti i fronti. Che ne pensi?
Come ho già detto, penso che purtroppo il rock sia morto. E non si tratta di cultura: il rock è stata fondamentalmente, al suo nascere, beata ignoranza, proprio come la trap oggi, in un certo senso. Certamente poi ci sono state evoluzioni anche coltissime (alcuni esempi: progressive, rumorismo, noise, post-rock), ma la sua base pulsante è una gioia di vivere immediata e ignorante, che si esaltava con le possibilità offerte da una tecnologia che oggi è arretrata. Il rock, come sound, ci parla dei rumori della fabbrica, di macchine rombanti, di moto ruggenti: sono i rumori della civiltà industriale. Che oggi è scomparsa. Il mondo sonoro quotidiano in cui viviamo è quello dei suoni digitali degli smartphone. Il rock parla di un’altra epoca. È stata la musica della working class e degli elementi della middle class che sentivano fortissima l’attrazione per essa: la jungle fever era quella di sentire il blues, ovvero il canto degli afroamericani proletari sfruttati; la rabbia dell’ingiustizia e dell’esclusione sociale portava i borghesi a sposare la causa dei proletari. John Lennon, che era piccolo borghese, scrisse “Working Class Hero”. Roger Daltrey, che era proletario davvero, disse che per sfuggire alla povertà in Inghilterra c’erano solo tre modi: diventare pugile, diventare delinquente, diventare una rockstar. Lui aveva scelto la terza. Oggi i trapper cantano il disagio delle periferie, ma il loro sogno è diventare ricchi sfruttando i simili, vendendogli droga (un’eredità del gangstar), fottendo i compagni di sventura. Non è più la grande truffa del rock’n’roll, i Sex Pistols che fregano la EMI. Tra Soros e Sfera Ebbasta la differenza è nei soldi posseduti, non nell’atteggiamento.
Per chiudere: pensi che la lettura di questi libri possa smuovere un po’ la coscienza culturale oppure il tuo era solo uno scopo “documentaristico”?
Nessuno dei due: il mio scopo era sentirmi vivo e far sentire vivo chi legge. Siamo solo nani sulle spalle di giganti, come Bernardo di Chartres e gli Oasis. Ma è questa coscienza che ci permette di scuotere le nostre vite dominate da alienazione da lavoro, da pigri tran tran familiari e farci sentire come un Dio dorato che si affaccia sull’America per dominarla. Dormiamo, ma forse possiamo sognare.