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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
23/04/2018
QuébecRockSampler
Note d'ascolto (3)
La terza infornata dei dischi più importanti e rappresentativi della serie QuebecRockSampler

Ville Emard Blues Band

Live À Montréal (1974)

Quello che si consumò al Teathre St. Denis di Montreal, nel Gennaio 1974, fu uno degli happening zenithali del Quebec Rock, quando la cooperativa musicale della Ville Emard Blues Band, dispiegò il suo imponente serbatoio di talenti in uno show che diventa, ascoltato oggi, uno dei doppi live più interessanti che ancora manca alla vostra collezione.

Copertina scarna da bootleg, coi colori bianco e blu della bandiera "nazionale". Una quindicina i musicisti che si alternano sul palco, eclettismo spinto, che si muove con nonchalance tra il R'nB più raffinato, libertà prettamente jazz, malinconie progressive (con menzione per la sonata per pianoforte e mellotron di Ode À Une Belle Inconnue), fusion e rock delle tribù acide (Ville Emard Blues, deliquio latineggiante in foreste senegalesi), senza artifici o lambiccamenti, ma con tutta la classe dei grandi entertainer di confine: Chicago, Zappa, Blood Sweet And Tears, Santana, Weather Report. Riferimenti trattati con la bella estemporaneità tipica di una jam band della Baia, in più, a fare da legante, le voci suadenti da odissea mediterranea di Christianne Robichaud e Lise Cousineau. Se poi vi sentite più spigolosi, preferirete i 10 minuti strumentali per pattuglia free funk alla Captain Black di Konky Donky, quelli altrettanto liberi di Poivrots Névrosés o il pieno d'orchestra nell'iperfunk terminale di Strangle.

Ma in verità, ciò che più resta, è il tangibile spirito comunitario di coloro che con modestia si sono fatti piccoli ma sinceri testimoni d'un epoca.


Morse Code

La Marche Des Hommes (1975)

Lenta assolvenza elettrica, silenzio, poi il dinosauro compare e spiana un tremendo riff d'apertura, terremoto che squassa i Deep Purple giapponesi con tutta la mistica degli Uriah Heep d'annata, per spalancarsi su orizzonti violacei di sospensione barocca, che ripiombano nel miglior hard rock prodotto sull'altra sponda atlantica.

Così si apre una delle più spettacolari trilogie del prog pesante, non solo canadese.

Passata la tormenta di un popolo in marcia, la sciarada continua su forme canzoni impeccabili, devote al rigore degli Octobre, arrangiate con gusto e incarnate in una foga strettamente rock, attraversate da una narrazione certo romantica, all'occasione malinconica, riflessiva (la ragnatela nella grotta degli specchi de La Ceremonie De Minuit), ma sempre capace di scatenarsi nel disco-funk per mellotron e flauto di Cocktail e nella scossa metal di umanesimo combattente (così dannatamente "quebecois") di Qu'est-ce Que T'as Compris? una nuova Maudite Machine ad amplificatore zeppeliniano.

Sound strabordante, sull'esempio degli Offenbach, e potenza inusitata nel contesto del Quebec per uno degli LP che dovete ascoltare per comprendere il valore del movimento.


Seguin

Récolte De Rêves (1975)

Nel 1975 (les) Seguin(s) approdano alla Kot'ai, di casa Infonie. E subito ecco lo zampino di Raöul Duguay nella lunga Les Saisons.

Ma se un album si apre con una versione gregoriana di una chanson di Gilles Vigneault, voilà la sponda lunare del folk progressivo degli Harmonium, che scende delicato come una foglia che si posa sull'acqua del lago.

In un ciclo stagionale in cui è importante solo la Terra, si incontrano una Joni Mitchell floreale danzante nelle tele di un rinato Tim Buckley, come nella liquida ed azzurra Et C'Est L'Hiver o in Les Enfant D'un Siècle Fou, in un alternarsi di tramonti ancorato alla melodia della canzone d'autore più raffinata, rinnegando l'elettricità del rock ma devoto a certe rinascimentali sonate progressive come Hé Noe o la dolente serenata barocca di Fugue En Do Mineur, ouverture alla notturna evocazione di silfidi di À La Pleine Lune, rifinita da una mistica coda per flauto elettrico modulato.

Un incantesimo che recita a memoria l'hippy-prog della Incredible String Band, trapiantata nell'antica terra dei totem dei Nativi.


Pollen

Pollen (1976)

Una storia che parte indietro nel 1972, ma il gruppo dei polistrumentisti Claude Lemay e Jaques Rivest arrivò tardi all'esordio discografico con la Kébec-Disc, appena in tempo per cogliere gli ultimi fuochi del Movimento, dopo un triennio passato ad elaborare un elettrico live act con tanto di laser.

Certo la loro vena è progressive in senso strettissimo, un flash rock alla Yes, magari un po' impersonale, delegando tanto feeling all'algida voce dei synth.

Disco diviso in due parti, una solare una lunare, che non si fanno in effetti mancare belle albe spaziali ad ampio respiro (Vieux Corps De Vie d’Ange) e la sicura padronanza del complicato gioco di incastri ritmici.

Un lavoro più affine al grande pomp rock di stampo statunitense (L’Étoile sarebbe un gran pezzo su ogni album degli Starcastle) piuttosto che allo stile dei colleghi francofoni, e comunque un LP oggi assai riverito, sarà anche per la futuristica cover da manga galattico. Nessun dubbio sul fascino saturniano della lunga La Femme Aillée.

Ma l’avventura del quartetto era già terminata.


Dionne - Brègent

...et le troisième jour (1976)

Musica permeata da un profondo senso religioso pan-confessionale, come derivata da una cerimonia pasquale eterodossa, celebrata sotto la volta modernista di una cattedrale di Alvar Aalto.

Bregeant non lesina sul voice synth che si mischia al coro in carne ed ossa generando uno strumento androide; intanto il collega dà fondo ad una fornita batteria di idiofoni che vibrano non distanti dai minimalisti rituali di un giardino zen, srotolando preghiere buddiste nel Temple du Silence, l'unica oasi di quiete in un lato B che è una sarabanda di evocazioni mefistofeliche e trionfanti.

Straniante l'eterna assolvenza dal fondo nero che conduce all'orrore post industriale di Possession / Destination , una cacofonia da Faust maligni a campane spigate in cieli rossi e tumultuosi.

Kraut-Quebec dello Schönberg maturo, un oratorio per mura sconsacrate.

Da ascoltare.


Conventum

L'Affût D'Un Complot (1977)

Ecco il tardivissimo esordio di uno dei simposi musicali e culturali più interessanti del Quebec.

Progressive più per habitat che per contenuti, la musica dei Conventum rilegge in tremenda profondità la chanson francese, guarnita di arrangiamenti costruttivisti quanto minimi, un artrock da cafè post moderno, di una attualità impressionante e traboccante di sana ironia. Mix di violini, elettronica spicciola, contrappunti vocali, ensemble da camera come i migliori Harmonium, teatro canzone (La Bataille, uno per tutti), balli tzigani (Les Réels Du Conventum), ed un zigzagante substrato di nevrosi cittadina.

Le titletrack, minisuite di 6 minuti, dove un elaboratissima apertura in dissonanza di archi introduce una recita per antagonista solista che puzza di disagio e polemica, intrappolato nella tela finissima di chitarre acustiche. E poi i due complessi strumentali che chiudono il lato B: avanguardia da salottino per intellettuali scaltri.

È il folk trascolorato di una Montmartre polare, frequentata da Zappa, Waits, i controversi Amon Duul della Tanz, premonitore di Magnetic Fields come di altra mezza dozzina di indiani acustici. LP tra i più spiccatamente “quebecois” del Movimento.