Arrivati al sesto disco, gli americani The Wonder Years vanno ancora di più al cuore della loro proposta e della loro estetica, regalandoci il capitolo forse più maturo e consapevole della loro carriera. Una vicenda simile a tante altre, anonima e quasi insignificante, con un gruppo di amici cresciuto nello stesso quartiere (in questo caso nei dintorni di Philadelphia), che ha giocato insieme, ha frequentato la stessa scuola, in alcuni casi è uscito con ragazze che ha poi finito con lo sposare.
Una band messa insieme quasi per scherzo, che pian piano si trasforma in qualcosa di più serio e arriva a mietere consensi di tutto rispetto, pur senza toccare livelli da megastar (il quindicesimo posto delle classifiche americane raggiunto dal precedente “No Closer To Heaven” è comunque un traguardo di cui essere fieri).
“Sister Cities” (che prende il nome da un programma varato da Eisenhower nel 1956, un tentativo di incrementare i legami culturali tra i vari paesi, nell’ottica di alleggerimento della situazione internazionale) nasce da una disavventura finita bene: nel corso dell’ultimo tour, il gruppo si è visto annullare all’ultimo momento una data a Santiago del Cile. Alcuni fan non si sono persi d’animo e, pur di vedere i loro beniamini suonare, hanno organizzato un concerto in fretta e furia, provvedendo anche alla logistica e alla sistemazione per tutti. Uno show intimo, davanti a poco più di un centinaio di persone, ma che ha rinsaldato i legami tra band e pubblico e ha rappresentato per il cantante Dan Campbell una sorta di rinascita, al punto da immortalare l’episodio nella title track, una splendida cavalcata dal sapore Punk, dove i ritmi alti si fondono con un ritornello da Stadium Rock.
Ce ne sono altri, di brani scaturiti da viaggi intorno al mondo ed esperienze personali: l’opener “Raining in Kyoto”, la cui iniziale pulsazione drammatica sfocia in un chorus liberatorio, nasce dalla visita che Dan fece in un tempio scintoista in Giappone, subito dopo aver appreso della morte del nonno, e in colpa per non poter tornare per il funerale. Qui l’incontro, semplicissimo, con uno sconosciuto e le poche parole scambiate con lui, lo hanno in qualche modo portato a trovare conforto e a capire che, nonostante la distanza, le persone che si amano sono comunque legati da fili misteriosi e invisibili.
Ma c’è anche “Flowers Where Your Face Should Be”, romantica e toccante ballata che racconta il matrimonio tra il cantante e la sua ragazza di lunga data. Un brano che sembra inizialmente estraneo all’atmosfera di esplosiva energia che si respira per tutta la sua durata, ma che in fin dei conti è perfettamente bilanciato al suo interno.
I Wonder Years sono infatti uno di quei gruppi americani che fa della carica drammatica inflitta ai propri pezzi uno dei suoi principali marchi di fabbrica: c’è l’epicità Blue Collar di Bruce Springsteen riletta in chiave Gaslight Anthem, una serie pressoché perfetta di inni da cantare a squarciagola, con quella malinconia e rabbia Emocore così magnificamente tradotta in musica dai Brand New.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Arrivati al sesto disco, la proposta del quintetto di Philadelphia non appare mutata, con brani che privilegiano i mid tempo, i fragori chitarristici, le accelerazioni improvvise e le melodie che spaccano il cuore. Dan Campbell, da questo punto di vista, si conferma sempre un ottimo cantante, mescolando al punto giusto tecnica e potenza evocativa; la stessa cosa si può dire per il chitarrista Matt Brasch, suo inseparabile compagno e altra colonna portante del processo di scrittura.
Per gli amanti del genere, un lavoro imprescindibile. Per tutti gli altri, un ascolto lo si potrebbe dare: non sono molto conosciuti dalle nostre parti ma l’attitudine sincera e appassionata di questo gruppo potrebbe farlo amare a chi ancora vede il Rock come un affare di cuore e passione, suonato e gridato ovunque ci sia qualcuno disposto ad ascoltare.