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REVIEWSLE RECENSIONI
04/06/2018
Horse Feathers
Appreciation
Il disco è davvero qualcosa di diverso da ciò che avevamo ascoltato prima, e rappresenta un’ulteriore tappa in un percorso mai lineare, eppure caratterizzato da un livello compositivo senza cedimenti

Poche band sono più affidabili degli Horse Feathers, combo proveniente da Portland, Oregon. In dodici anni, la ragione sociale capitanata dal cantante e chitarrista Justin Ringle, ha rilasciato sei album, compreso il precedente (che è anche il quinto con la Kill Rock Stars), uno più bello dell’altro.  

Una coerenza qualitativa ancor più degna di nota, se si pensa che il gruppo ha vissuto una carriera artistica in continuo mutamento, passando attraverso importanti cambi di line up (prima quattro membri, poi undici e, quindi, cinque), e plasmando nel tempo un suono che, da un’iniziale ortodossia roots, è passato a qualcosa che si inserisce organicamente all’interno della scena folk rock, avvicinando maggiormente gli Horse Feathers ai Decemberists, per fare un nome noto, e allontanandoli progressivamente dagli Avett Brothers, band con cui fin dagli esordi avevano più di un punto di contatto.

Questo Appreciation non smentisce i connotati di una band incapace di cristallizzare la propria musica entro stilemi prevedibili e reiterati, tanto da apparire solo parente alla lontana degli altrettanto buoni Thistled Spring(2010) o Cynic's New Year (2012). Se i tratti distintivi della voce del frontman, Justin Ringle, e del violino di Nathan Crockett, continuano a essere l’anello di congiunzione fra passato e presente, questo nuovo lavoro si distingue, però, per un ruolo più centrale della sezione ritmica, per i cori di Joslyn Hampton e Chris Dennison che danno più ampio respiro alle composizioni, per i drive pianistici che colorano alcuni passaggi del disco (Born In Love) e, soprattutto, per un retrogusto seventies che anima alcune delle più riuscite canzoni del lotto, come Without Applause e Best To Leave.  

Non è un caso che la copertina del disco, un primo piano non filtrato del volto di Ringle, presumibilmente sul palco, con un riflettore dietro di lui, evochi alcuni LP degli anni '70: il genere di copertina, la buttiamo lì, che piaceva tanto a gente come Jim Croce, John Denver o Eric Clapton.  

Non manca il consueto gusto per le melodie e quel suono che spesso fa pensare a una band alle prese con una performance live e non invece chiusa all’interno di una sala di registrazione. Il disco, tuttavia, è davvero qualcosa di diverso da ciò che avevamo ascoltato prima, e rappresenta un’ulteriore tappa in un percorso mai lineare, eppure caratterizzato da un livello compositivo senza cedimenti. Tanto che, la vera notizia, a questo punto, non è certo l’ennesima nuova formula musicale, quanto il fatto che, per quanto cambino continuamente registro, gli Horse Feathers continuino a non sbagliare un disco.