La storia dell’Hard & Heavy è piena di gruppi per i quali il fattore immagine è stato determinante per il successo, e la storia di Kiss, Iron Maiden, Judas Priest, Dio, Alice Cooper, Marilyn Manson e Slipknot ne sono la conferma. Alle volte, al netto di grandi album e grandi canzoni, ha potuto più una copertina iconica di un riff ben confezionato. Cosa sarebbe successo alla Vergine di Ferro senza Eddie the Head e il talento visivo di Derek Riggs? E che dire dei Kiss, del make up, dei personaggi modellati sull’esempio dei Beatles e del mistero che per anni ha avvolto le loro reali identità? Parafrasando David Bowie, il Rock è sempre stato “Sound and Vision”.
Ma c’è una differenza. Se tutti i gruppi sopracitati hanno potuto godere fin da subito dell’amore incondizionato dei fan di tutto il mondo, allo stesso tempo hanno però dovuto costantemente scontrarsi con la critica musicale e gli addetti ai lavori, mai teneri nei loro confronti. Con i Ghost, invece, le vendite degli album, i sold out, le recensioni positive e un certo endorsement da parte dei colleghi musicisti sono fin da subito andati a braccetto, in un crescendo costante che da un certo punto di vista ricorda quello dei Mastodon. Il punto più alto di questa inarrestabile escalation è senza ombra dubbio l’ottavo posto della US Billboard 200 di Meliora nel 2015 e la vittoria, l’anno successivo, del Grammy per il Best Hard Rock/Metal Album. Cosa può essere cambiato dagli anni Settanta a oggi? Forse ha ragione Nicko McBrain quando, a chi gli ha chiesto come mai gli ultimi lavori degli Iron Maiden ricevessero recensioni così entusiastiche, ha dichiarato candidamente: «Semplice, perché ora ci sono i “nostri ragazzi” ai posti di comando».
Tobias Forge, il deus ex machina dei Ghost, non è uno sprovveduto. E lo si è capito benissimo quando si è trovato a dover gestire i risvolti dell’azione legale che i suoi ex-compagni di band hanno intentato nei suoi confronti e che, tra le altre cose, ha rivelato la sua identità, fino a quel momento solamente ipotizzata. Invece di incassare, Forge è passato all’attacco, prima dichiarando che i Ghost in realtà sono un suo progetto solista e i musicisti coinvolti dei semplici turnisti stipendiati, e poi accantonando la figura ormai ingombrante di Papa Emeritus III in favore di Cardinal Copia, un personaggio più versatile, una via di mezzo tra un alto prelato e un gangster romantico che non disdegna il ballo.
Polistrumentista (il primo album dei Ghost, Opus Eponymous, lo ha inciso praticamente tutto da solo), Forge, nonostante la relativamente giovane età (dopotutto ha solo 37 anni), in oltre vent’anni di carriera ha suonato in diverse band della scena svedese, sperimentando praticamente ogni genere musicale: il Death Metal con i Repugnant, il Glam Metal con i Crashdïet, il Punk Rock con gli Onkel Kånkel, il Pop Rock con i Subdivision e l’Alternative Rock con i Magna Carta Cartel. Un curriculum di tutto rispetto, quindi, votato alla contaminazione, all’apertura mentale, tipicamente svedese: solo in Svezia, infatti, può capitare che un produttore Pop come Shellback, il braccio destro di Max Martin, lavori con una band Hardcore come i Refused senza che nessuno si scandalizzi.
E tutto questo, in Prequelle, si sente. La produzione di Tom Dalgety (alla terza collaborazione con l’ensemble svedese dopo l’ep Popestar e il live Ceremony and Devotion) riesce nel miracolo di tenere insieme le due anime, apparentemente contraddittorie, che rendono la musica di Forge così particolare. Da un lato c’è lo spirito apollineo dei Ghost, il versante Hard Rock, dove il sound è modellato sull’esempio di band come Black Sabbath, Alice Cooper, Dio e Blue Öyster Cult. È il caso di “Rats”, il primo singolo, che inizia con un’incalzante batteria e ha un assolo che riporta alla mente il giovane Vivian Campbell. Oppure di “Faith”, con il suo riff à la Tony Iommi e i vocalizzi che citano King Diamond, e “Witch Image”, che non sarebbe dispiaciuta all’Ozzy Osbourne di Blizzard of Ozz. Dall’altro c’è lo spirito dionisiaco, indirizzato verso il Pop, che guarda senza paura agli ABBA, al Meat Loaf di Bat Out of Hell e a musical come The Rocky Horror Picture Show. Del mazzo ne fanno parte pezzi orecchiabili come l’irresistibile “Dance Macabre”, oppure ballate come “Pro Memoria” (con un assolo finale preso di peso da “Ordinary Word” dei Duran Duran) e “Life Eternal”, costruite su pianoforte e archi sul modello dei musical di Andrew Lloyd Webber.
In mezzo, le due tracce strumentali: “Miasma” è un riuscito mix tra i Goblin di Profondo rosso e l’Electric Light Orchestra di Out of the Blue, mentre “Helvetesfönster” inizia come un pezzo dei primi Genesis e si conclude dalle parti degli ultimi Opeth, con tanto di ospitata alla chitarra di Mikael Åkerfeldt.
A partire da Infestissumam e passando per Meliora, i Ghost sono riusciti, all’interno di un mondo estremamente frammentato come quello dell’Heavy Metal, a ritagliarsi una nicchia che, nel giro di cinque anni, si è fatta sempre più grande. Ora che hanno raggiunto quella popolarità di massa tanto auspicata, non era facile realizzare un album che mantenesse le promesse degli esordi e contemporaneamente si lanciasse verso territori più accessibili senza scontentare nessuno. A quanto pare, Tobias Forge ce l’ha fatta. Prequelle forse non è il migliore album dei Ghost in senso assoluto, ma sicuramente è il più adatto a rappresentare il combo svedese in questo 2018: citazionista quanto basta, irriverente negli accostamenti, divertente senza mai essere molesto, ruffiano ma al tempo stesso coraggioso, con la giusta dose di Pop nel Metal e di Metal nel Pop. Insomma, un tributo a un genere e ai suoi stereotipi, è vero, ma che non scade mai nel puro esercizio di stile. I difensori della fede Metal magari storceranno il naso, intenti a chiedersi se Forge sia più furbo che bravo, ma è anche da band come i Ghost e album come Prequelle che passa il futuro di un genere.