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REVIEWSLE RECENSIONI
21/06/2018
Melody's Echo Chamber
Bon Voyage
Un viaggio di ricerca umana e spirituale, un’odissea psichedelica ma anche Folk e progressiva, dedicata in particolar modo a coloro che cercassero una diversa declinazione artistica di un cantautorato femminile che sembra stia uno dei periodi più fortunati della sua storia.

Ci sono diverse chiavi di lettura per entrare in questo disco. C’è, innanzitutto, il gap di cinque anni da quello d’esordio, che aveva ricevuto buoni feedback e aveva giustamente fatto partire il countdown per una riconferma. C’è il ruolo di Kevin Parker, che aveva prodotto il precedente lavoro della ragazza francese e che, sebbene non più legato a lei sentimentalmente, aveva iniziato a lavorare anche sul secondo; collaborazione interrotta a metà, non si è capito bene per quale motivo. Da ultimo, il misterioso incidente che le è capitato un anno fa, una non specificata caduta che le ha provocato un aneurisma e la rottura di una vertebra cervicale. L’uscita del disco è stata posticipata e per un attimo si è temuto il peggio. Oggi, pur non volendo parlare diffusamente di quel che è successo, Melody Prochet sembra aver recuperato alla grande e appare desiderosa di gettarsi in una nuova avventura.

Intervistata da Pitchfork, alla domanda su che cosa avesse reso gli ultimi anni così difficili, ha risposto semplicemente: “La vita”. Che non è una grande novità, a voler ben vedere, ma se si prende la sua storia seriamente, allora tutto questo non appare certo privo di significato.

Il disco, infatti, s’intitola “Bon Voyage” e per lanciarlo la sua autrice ha scelto di raccontare una storia attraverso i video dei tre singoli, legati assieme dalla stessa tecnica (un disegno animato meravigliosamente vintage e fuori tempo) e da una sceneggiatura difficile da decifrare, piena com’è di suggestioni lisergiche e di rimandi onirici. Il viaggio, la ricerca di una nuova dimensione di sé, di una pace interiore che possa prevalere sulla durezza delle circostanze, sembra comunque essere il filo conduttore di una trilogia che non mancherà di affascinare, anche se perdersi nel turbinio confuso delle immagini sarà la prima cosa che vi capiterà.

Per registrare le sette canzoni che compongono questo lavoro se n’è andata in Svezia e lì, nella quiete delle foreste che circondano Stoccolma, ha conquistato una dimensione ideale che dall’ascolto traspare in più di un’occasione.

Importante anche il team che l’ha aiutata, con quasi tutti i Dungen (Reine Fiske, Gustav Esjtes, Johan Holmegaard) ad affiancare Nicholas Albrook dei Pond e Fredrik Swahn dei The Amazing. Kevin Parker fisicamente non c’è ma i suoi Tame Impala sono presenti a più riprese nelle note di questo disco: dalle atmosfere generali, ai riff di brani come “Cross My Heart” e la conclusiva “Shirim”, che sembrano tirati fuori di peso dalla discografia dell’artista australiano.

Per il resto, “Bon Voyage” è un disco che alle melodie dirette e scintillanti del disco precedente, unisce una maggiore ricerca sonora, che si traduce non solo nell’impiego di una vasta gamma di strumenti (flauti e percussioni varie soprattutto) ma anche in una dilatazione delle strutture dei brani, in continue divagazioni dal tema portante, in fughe in avanti che rendono questo album un autentico caleidoscopio di umori e di colori.

A tratti si respira un po’ di confusione, come se l’intento sacrosanto di staccarsi dai normali canoni del songwriting e la voglia di jammare e sperimentare in libertà, avessero un po’ fatto perdere a Melody e ai suoi compagni d’avventura il senso della realtà. Da questo punto di vista, i singoli “Cross My Heart” e “Desert Horse”, che pure funzionano bene nei loro elementi principali, hanno delle parti centrali di grande suggestione ma anche un po’ dispersive. Stessa cosa per “Quand Les Armes d’un Ange Font Danser La Neige”, vero epicentro del disco, coi suoi sette minuti di durata: eterea e affascinante, con quel suo piglio da ballata Hippy ma un po’ troppo ripetitiva, con le dilatazioni lisergiche del finale.

Il resto comunque scorre via bene e dimostra una indubbia crescita di mezzi e consapevolezza, assieme alla volontà di realizzare un prodotto più complesso e sfaccettato, come testimoniato anche dalla scelta di cantare in tre lingue diverse, inglese, francese e svedese.

Un viaggio di ricerca umana e spirituale, un’odissea psichedelica ma anche Folk e progressiva, dedicata in particolar modo a coloro che cercassero una diversa declinazione artistica di un cantautorato femminile che sembra stia uno dei periodi più fortunati della sua storia. La curiosità di vedere cosa combinerà dal vivo, a questo punto è parecchia.