Nel giro di due giorni mi sono imbattuto in due vecchie notizie (una cartacea, l’altra in video) che documentavano alcune vecchissime apparizioni televisive dei Depeche Mode, periodo Vince Clarke. In entrambi i casi, il gruppo veniva liquidato con scetticismo, addirittura si dubitava che avrebbe mai potuto imbastire una performance live che non facesse dormire dalla noia (il senso più o meno era quello). I detrattori di turno si chiamavano Mike Bongiorno e Red Ronnie.
Oggi che Martin Gore e soci sono al livello che conosciamo, verrebbe facile bollare i nomi di cui sopra come gente che non ci ha mai capito una beata fava. Un po’ come la menano ancora adesso ad Eddy Cilìa, per la sua ignominiosa stroncatura di “The Queen Is Dead”.
O Luca Signorelli (grandissimo giornalista, questo voglio vedere chi se lo ricorda), che su un Metal Hammer di fine 1994 diede il massimo dei voti a “Burn My Eyes”, opera prima degli sconosciuti Machine Head, giustificando apertamente la decisione col fatto che non voleva finire come quel giornalista che dieci anni prima non diede a “Master of Puppets” dei Metallica la palma di disco del mese.
Potrei continuare ma è meglio fermarsi qui. Il punto è che la diatriba, la solita ennesima versione attualizzata della querelle degli antichi e dei moderni applicata alla musica, è tornata fuori ed io non sono proprio capace di starmene zitto.
A questo giro è il turno di Young Signorino ma il punto non è certo lui. A me personalmente la sua proposta interessa poco, non mi dice nulla e non voglio entrare nel merito. Eppure negli ultimi giorni si è accesa una bella discussione sull’esistenza o meno di parametri oggettivi per separare la bella e la cattiva musica e allo stesso tempo alcuni amici mi prendono in giro più o meno bonariamente, per questo mio recente interesse per artisti cosiddetti “giovani”.
Sul valore oggettivo ricorrerò ad un altro aneddoto: un mio ex collega amava raccontare che durante un esame di specializzazione all’insegnamento della musica, vide un candidato essere bocciato brutalmente perché ebbe l’ardire di affermare che “Mozart era geniale” e, sollecitato dal professore che interrogava a fornire qualche argomentazione, non era riuscito a trovarne nessuna che fosse ritenuta sufficientemente “oggettiva”.
Episodio estremo, certo. Probabilmente anche un po’ romanzato. Ciò non toglie che il problema si pone e che risolverlo non è mai stato semplice. Credo di averlo già scritto ma oggi ne sono più che mai convinto: il criterio di valore oggettivo più resistente e più credibile lo fornisce il tempo. Un artista è tanto più credibile in quanto diventa modello per altri artisti, in quanto la sua opera resiste negli anni e viene citata e considerata anche al di fuori dell’universo strettamente musicale.
Tutto il resto, francamente, è opinabile. Ci possiamo anche mettere qui ad analizzare nota per nota la struttura armonica di certi brani dei Beatles o dei Genesis, ma avremmo fatto una cosa per addetti ai lavori. Attenzione, non ho detto che non serva: ho partecipato a diverse guide all’ascolto, sia di musica classica, sia di musica “moderna” e ne ho sempre tratto giovamento. Chi è competente ed è in grado di spiegarti cosa c’è dietro ad una successione di tre accordi costantemente ripetuti, o dietro ad un improvviso cambio di tonalità, non potrà che svolgere un servizio di grandissima importanza.
Da qui a dire però che si possa oggettivamente stabilire cosa vale e cosa no, ce ne passa. Il gusto si educa, è vero: dieci anni fa se sentivo un suono campionato andavo al cesso a vomitare. Oggi Daft Punk, Four Tet e John Hopkins sono artisti che adoro, per non parlare del fatto che ormai l’elettronica è entrata dappertutto, anche nelle produzioni Heavy Metal che erano quelli che “il dj non suona, mette dischi”. È una questione di gusti e di prospettiva storica, sempre: da vecchio metallaro, ve le ricordate le polemiche quando uscì “Nothing Else Matters” dei Metallica? E chi c’era ancora prima ricordava che la stessa cosa era accaduta con “Fade to Black”! Oggi possiamo dire che Ride the Lightning fu quasi un Instant Classic, mentre il famigerato Black Album sono ormai vent’anni che è assurto tra i grandi dischi della storia del rock.
Parliamo di Marc Bolan? È stato un grande artista oppure no? C’è stato un tempo in cui riempiva gli stadi ma quel tempo è stato troppo breve e oggi di lui si ricordano gli appassionati di musica, non tutti gli altri. Eppure questo basta per sminuire un disco come Electric Warrior? È sufficiente per avallare il giudizio di un giornalista musicale competente e stimabilissimo che anni fa definì i T. Rex “un gruppettino Glam”?
E di Bowie? Vogliamo parlare anche di lui? Un po’ di mesi fa un musicista famoso (giuro che non mi ricordo più chi fosse, se qualcuno ha lumi me lo dica) si attirò l’odio di mezzo mondo perché disse che, a suo parere, l’artista inglese aveva scritto sì e no dieci pezzi belli e che per il resto era stato fortemente sopravvalutato. Giudizio impietoso? Vaccata dell’anno? Per me sicuramente sì ma poi ti leggi Polvere di stelle di Simon Reynolds (che non è esattamente il primo pirla) e scopri che lui di Bowie pensa bene o male la stessa cosa, anche se non in questi termini tranchant e dopo averla argomentata molto meglio e per decine di pagine.
Sono questioni complesse, dobbiamo avere il coraggio di dirlo e, se proprio abbiamo voglia di discutere, continuare a farlo proprio prendendo questa complessità come punto di partenza e insieme come ipotesi interpretativa.
Vale anche per la Trap, questo discorso. In America esiste da quindici anni? Verissimo ma in Italia è arrivata ora e proprio ora sta provocando una frattura generazionale che, se pur nuova in questa declinazione, è sempre esistita e sempre esisterà. Ed ogni volta è la stessa storia, perdiamo la memoria ed è come se tutto questo non fosse mai successo. Lo diceva un mio contatto su Facebook durante l’ennesima discussione in materia: “Ogni generazione ha schifato i gusti musicali di quella precedente e in seguito la storia ha dimostrato che aveva torto, eppure noi siamo la prima generazione a voler sindacare con assoluta certezza che la storia ci darà ragione.”.
Quindi? Come se ne esce? Non se ne esce, ovvio. Ma forse si può cercare di essere aperti, curiosi, positivi. Ho iniziato ad avvicinarmi all’elettronica perché amici che stimavo la ascoltavano. Ve lo ricordate Kid A? Ve lo ricordate il casino che provocò? Di questo ho già scritto ampiamente ma per me fu un episodio decisivo: andai da un amico e gli dissi: “Fa cagare!”. Lui mi rispose: “È bellissimo, ascoltalo ancora!”. Tornai dopo una settimana e almeno quindici ascolti in più, dicendo: “Avevi ragione, è bellissimo!”.
Col Rap è andata in maniera simile. Tutti lo ascoltano, tutti ne parlano. Faccio l’insegnante e ho un sacco di studenti che lo amano, che ne fanno una ragione di vita. Ora, io non credo che i miei studenti siano stupidi. E attenzione che io con loro di musica non parlo mai. Anzi, per la verità non sono neppure uno di quei professori che parla con gli studenti. Però so che quella roba la sentono, io do loro fiducia e mi è venuta la curiosità di capire se ci fosse qualcosa di buono. Oppure capita che intervisti i Perturbazione e ti citano il disco di Ghemon, tu lo senti e scopri che è bravo, che è uno che sa scrivere e inizi a seguirlo. O un altro artista che intervisti e ti parla di Nitro. O Rumore, che mette in copertina Salmo e Ghali e tu Rumore lo segui, stimi chi ci scrive sopra e quindi inizi ad ascoltare e scopri che, dopo tutto, lì dentro c’è un mondo, che si può continuare a dire che Kendrick Lamar è a un altro livello ma allo stesso tempo ammettere che in Italia sta succedendo qualcosa di interessante.
Ecco, la musica è questo. È apertura, è curiosità. Io questa apertura e questa curiosità l’ho sempre avuta. È la stessa apertura che mi ha fatto smettere ad un certo punto di ascoltare Metal perché quelle sonorità, quelle proposte, non mi rispecchiavano più. Però io a 17 anni ascoltavo gli Iron Maiden ma andavo anche a vedere Guccini. E oggi non ci vedo niente di male a mettere su Pornography dei Cure mentre leggo un romanzo e subito dopo dedicarmi al nuovo di Mecna perché la casa discografica me l’ha mandato e a me lui piace da un paio d’anni almeno.
Non lo so, sembra che me la stia menando ma la verità è che sono semplicemente stufo degli steccati, delle barriere. Amo gli Smiths e i Joy Division, adoro Lorde e Carl Brave ha fatto un disco meraviglioso. Allo stesso tempo, sono anch’io uno di quelli che aspetta l’uscita del disco dei Tool. La vogliamo capire che questa roba è normale? E la vogliamo capire che questa roba ha a che fare con l’educazione e col gusto personale? Due fattori che non solo non si escludono a vicenda ma che sono obbligati ad andare insieme. Pena la perdita del senso della realtà.
Esistono gli amori giovanili, certo. Anch’io li ho. Oggi, ad esempio, andrò per l’ennesima volta a vedere i Pearl Jam. Eppure credo che siano un gruppo che non ha più nessuna ragione di esistere, storicamente parlando (ma anche questo è un giudizio passibile di discussione). Bruce Springsteen, invece, probabilmente non lo vedrò più. Uno dei pochissimi artisti durante i cui concerti mi sono a volte commosso fimo alle lacrime. Non andrò più a vederlo perché mi ha rotto il cazzo, ma qui dovrei scrivere un altro pezzo, quindi mi fermo. La verità è che la musica è un’arte, l’arte ha a che fare con la conoscenza, la conoscenza ha a che fare con l’amore, l’amore ha a che fare con la vita. È un pensiero banale, lo so. Ma è anche l’unico che riesco a formulare. Quindi, finché sarò vivo, continuerò a voler conoscere. E se un giorno mi fermerò, vorrà dire che qualcosa si sarà fermato in me, prima ancora che nella lista dei miei ascolti. Ma queste cose le ho già scritte in passato quindi basta.
Consentitemi una battuta finale: a me il Futurismo come movimento artistico non è mai piaciuto. Eppure i Futuristi li adoro. Perché dopo un po’, tutti quelli che sentenziano che “Eh, ma ai nostri tempi sì che c’era la vera arte”, dopo un po’ spaccano i coglioni ed è giusto mandarli affanculo. E io un Marinetti me lo sono sempre immaginato così: uno che manda affanculo Dante perché, per una volta, vuole scoprire lui qualcosa che dia un senso alla propria esistenza. È semplicistico, detto così, ma il senso è quello. Non spacchiamo le balle al trapper di turno perché non sa chi sono i Sangue misto: facciamogli fare la sua ricerca e poi, se ne sentirà il bisogno, se li andrà a cercare. Anche perché dal passato non si scappa, sappiatelo. La tradizione è intorno a noi e dentro di noi: ciò che ha davvero valore esiste ed esisterà sempre, che lo vogliamo o no.