Se ci pensate, è ironico quel che hanno escogitato gli Intercity per questo loro album, il quarto della loro storia, senza contare le vite precedenti sotto i moniker di Campetty ed Ed Wood. Siamo in un’epoca storica che probabilmente verrà in seguito definita di spartiacque, un’epoca in cui le macchine non hanno più i lettori cd in dotazione, dove le sorti commerciali dei dischi vengono conteggiate in streaming e dove il concetto stesso di “album”, inteso come sequenza di pezzi composti nello stesso arco di tempo, facenti più o meno parte di un percorso coerente, viene dato sempre più spesso per morto da musicisti e addetti ai lavori (a parole però, perché poi in fin dei conti il 99% degli artisti pubblica ancora in questo formato). E dunque che cosa fanno loro, in questo clima di dispersione liquida, dove anche chiedere di tenere un’attenzione desta e prolungata su un unico oggetto può apparire richiesta pretenziosa?
Gli Intercity pensano bene di uscirsene con un doppio disco di 22 canzoni, 11 a volume, per 90 minuti scarsi di durata. Un monstre di altri tempi, insomma, figlio di un’era forse definitivamente tramontata, in cui non erano per forza solo i fan del Prog a desiderare lavori dal minutaggio elevatissimo.
Ci hanno creduto fortemente ma lo hanno anche proposto in punta di piedi, un po’ come a dire: “Noi l’abbiamo fatto, vedete voi se vi va di arrivare in fondo…”. Ci va, ci va. Non solo: per quanto le dimensioni possano spaventare, questa è un’opera fresca e diretta, facile da assimilare quanto totalmente priva di cedimenti (ci credereste? In un’ora e mezza non ci si annoia mai!).
Un disco che parla di viaggi, di amori, di distanze ma anche di piccole certezze; un disco che per mezzo di testi sofisticati e a tratti enigmatici, quasi simbolisti, riesce a realizzare una singolare dicotomia tra il “localismo” del titolo (“Laguna” non è certo parola da grandi spazi) e dai potenzialmente infiniti orizzonti evocati nei vari episodi, a creare un affresco che sembra avere come dimensione il mondo.
Gli ingredienti sono semplici, come da consolidata tradizione dei fratelli Campetti, ma sono combinati sempre con grande fantasia. Ritroviamo quell’atmosfera anni ’90 che non è mai andata persa nei loro dischi, con qui una freschezza Pop maggiore, data dall’impiego di un’elettronica avvolgente e aiutata da una produzione fantastica, che dà ai pezzi un suono pieno, potente, a tutto tondo.
È un disco Pop, quindi, fatto di brani trascinanti, a tratti liberatori, a tratti richiusi in una dimensione contemplativa e nostalgica.
C’è per esempio l’iniziale “Notturno”, una cavalcata punteggiata da fiati e archi; o “L’indiano”, il singolo uscito già diversi mesi fa, che è ammantata di di languido romanticismo. E ancora, “Zenith”: chitarre e Synth fusi perfettamente insieme, a dare un tiro pazzesco, da vero e proprio inno. Altrove le atmosfere cambiano, come in “Joshua”, che parla un linguaggio a metà tra Disco anni ’80 e Wave ipnotica, o in “Veracruz”, probabilmente il loro singolo definitivo, la migliore declinazione del loro lato Pop.
Bellissima e vincente poi l’idea di impiegare a piene mani fiati e violino, spesso combinati insieme nell’arco di un unico brano, come accade in “Microcosmo” (splendida la fuga nel finale), “Sweet Panda” (in una magistrale alternanza tra strofe acustiche ed esplosione elettrica del ritornello) o “Scatto fisso”.
Ma si potrebbe continuare: tra la cassa dritta di “Le piante di canapa”, le atmosfere agrodolci di “Per un pochino di spazio”, le suggestioni cantautorali di “Periferie”, ogni episodio è un piccolo gioiello di creatività, un tassello di un unico mosaico che parla un linguaggio semplice, senza tuttavia mai rinunciare alla propria forza evocativa.
Se proprio non riuscite ad ascoltarlo tutto di fila (chi non è abituato ai tempi lunghi in effetti potrebbe avere dei cedimenti), ciascuna delle due parti funziona come un album in sé compiuto per cui si può anche affrontarne una alla volta, focalizzare meglio i singoli brani e riuscire con calma ad apprezzare tutto.
Ad ogni modo, trovare gli Intercity così in forma, a tre anni di distanza dal pur ottimo “Amur” è una grande notizia. Così come ritrovare in Italia, nel 2018, una band che lavori utilizzando esclusivamente il metro del divertimento e della pura passione, fregandosene di rincorrere l’onda o di analizzare improbabili algoritmi di successo. Segno che quando si libera la creatività, così, senza calcoli, i risultati arrivano sempre.
Sarà per questo che da anni sono una garanzia, non importa quanta gente li conosca.