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REVIEWSLE RECENSIONI
24/07/2017
Sam Baker
Land Of Doubt
Questo nuovo Land Of Doubt potrebbe allora rappresentare il così detto disco della svolta, quella consacrazione, cioè, che uno degli artisti più interessanti dell’attuale panorama texano merita per la qualità del lavoro svolto finora.

Lontano dai tracciati dei radar che contano, il texano Sam Baker si è costruito in tredici anni di carriera la fama di artista “difficile”, incapace di scendere a compromessi con lo star system o di piegarsi alle mode del momento. La sua idea di country, termine mai come in questo caso assai riduttivo, ha prodotto dischi affrancati dagli stereotipi di genere, nei quali, pur mettendo in luce le proprie radici texane e la conoscenza filologica della materia (Townes Van Zandt, Guy Clark), ha di volta in volta spostato gli accenti della declinazione, utilizzando diverse modalità espressive e rendendo inscindibile l’elemento compositivo da quello relativo alle liriche, romanzesche o poetiche, ma sempre capaci di arrivare al nocciolo della questione. Il suo Say Grace del 2013 gli fece acquisire per la prima volta e un’estemporanea visibilità, dal momento che addirittura Rolling Stone USA inserì quel disco nella lista dei dieci migliori dischi country dell’anno. Questo nuovo Land Of Doubt potrebbe allora rappresentare il così detto disco della svolta, quella consacrazione, cioè, che uno degli artisti più interessanti dell’attuale panorama texano merita per la qualità del lavoro svolto finora. Difficile, ovviamente, che questo disco possa entrare in qualche classifica di vendita, ma un importante e definitivo riconoscimento da parte della critica è a dir poco doveroso. Siamo, infatti, di fronte a un songwriting intenso ed evocativo, che parte dalle basi dell’americana, arricchendola però di melodie sghembe, soundscapes cinematografici, arrangiamenti inconsueti che vibrano sulle note della tromba jazz di Dan Mitchell o avvolgono nei serici archi di David Henry e Eamon McLoughlin. Una musica che ricorda da vicino quella di Vic Chesnutt e Mica P. Hinson, altri due magnifici perdenti che, al pari di Baker, hanno creato un immaginario di canzoni malinconiche e dall’incedere obliquo, in cui le esitazioni, i vuoti, gli angoli cechi diventano il centro espressivo di una scrittura tanto colloquiale quanto languida. Non un disco immediato o di facilissima assimilazione, ma un flusso di suggestioni che, lento e inesorabile, canzone dopo canzone, saprà toccarvi il cuore.