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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
15/02/2019
Nero Kane
Desertiche connessioni con la spiritualità e la terra.
“I miei brani, parlando di perdita, di solitudine, ma anche di amore e speranza, parlano di noi e racchiudono i sentimenti più semplici ma anche “paurosamente” comuni in cui tutti nel bene o nel male ci ritroviamo. Eterne vittime di noi stessi e del nostro modo di vivere”. (Nero Kane)

Dal primo ascolto ho sempre pensato che il bivio fosse netto e inevitabile. Qualcosa di troppo grezzo e mal concesso al pubblico oppure trattasi di un ascolto esigente, di attenta sensibilità e di coraggio. Perché ad andare oltre si abbisogna di coraggio, sempre. Ed è così che dal digitale al vinile il passo non è solo estetico ma risulta, direi con fare definitivo, fondamentale. Lo skip inevitabile si traduce quindi in dovere di silenzio. Ed è nel silenzio che coltiva e fortifica ciò che c’è d’intorno questo nuovo disco di Nero Kane. È un silenzio di presagi, di liturgie e di quel soppesare con precisione orafa il proprio vissuto e le proprie connessioni, quelle spirituali con la vita celeste e la morte della carne e quelle terrene con il proprio modo di stare al mondo. Marco Mezzadri ha ragione quando dice che non è di sola morte che parla questo “Love In A Dying World” ma è altresì vero che ad ognuno sia data libertà di ficcarcisi dentro questo lavoro e poi anche di arredarselo addosso come un vestito, una maschera, qualcosa che più ci somiglia. E se il nostro cantautore si fa arcaico e desertico nel celebrare sfumature di vita e di “risurrezione” (mi si passi il termine) dentro concetti di morte e decadentismo, io ho preferito - forse sbagliando - abbandonarmi allo sgretolamento di vita per restare in silenzio a contemplare quel che resta a terra, tra le pietre, sulle mie unghie, nel gusto effimero di questo suono.

“Love In A Dying World” suona “americano”, proviene dall’Arizona, è ambientato in un deserto anche grazie al film di Samantha Stella che immortala nudo e crudo ogni istante di queste visioni umane di Nero Kane, senza colorarle di post-produzione o di magheggiamenti tecnologicamente comodi. Così com’è questa voce sottile resa ancestrale da un mix pulito e pregno di riverberi, così com’è la sua chitarra elettrica che plana non senza spine sulle melodie mono-tematiche e mono-toniche, o come lo sono questi organi che vorresti fossero a canne chiusi dentro alte cattedrali gotiche di qualche città europea… e ancora quei pochi altri sonagli e quei colori scoloriti che sanno di polvere e di momenti sospesi nel tempo. E se in copertina c’è troppo sole forse è perché ha ragione lui quando, tra le righe di questa interviste, ci fa capire che la morte è solo un punto di vista o un tramite dal quale o si fugge o si celebra la vita stessa che significa redenzione, che significa preghiera e che, in fondo, significa tutto il nostro tempo che ancora deve accadere.

“Love In A Dying World” è un disco spirituale davvero molto interessante. Una di quelle esperienze che solo il vinile può celebrare a pieno… visto come ci siamo ridotti a fare zapping al primo ostacolo intellettuale, sperando che dietro il prossimo click esista una soluzione immediata che ci faccia arrivare a capire senza neanche passare dal via. Amen.

Prima di tutto: perché Marco Mezzadri diventa Nero Kane?

In realtà Marco Mezzadri è scomparso già nei precedenti lavori. Nero Kane è infatti un nome d’arte che mi porto dietro da un po’ di anni anche se effettivamente “Love In A Dying World” è il primo album che firmo con questo titolo. Marco Mezzadri è diventato Nero Kane per diverse ragioni, in primis per vezzo, in secondo luogo per appartenenza ad un filone musicale da sempre legato alla realtà estera e solo marginalmente a quella italiana. Cantando in inglese mi è venuto naturale trovarmi un nome d’arte più internazionale.

Ma sopra ogni cosa mi incuriosisce sapere come si approda a questo mood. Cioè cosa ti spinge a vestire i panni - passami il termine - quasi sacerdotali, severi sicuramente, neri per ogni sfaccettatura della tua musica? Come sei approdato a questo genere insomma?

L’approdo a questo mood è stato un processo di sviluppo, di crescita, se vogliamo anche di ricerca avvenuto parallelamente nella sfera musicale quanto in quella privata. Tale processo, per quanto diretto, non è mai stato forzato o costruito a tavolino. Semplicemente, come spesso accade, il mio modo di scrivere è cambiato negli anni ed è passato da una vena più irruenta e giovanilistica verso qualcosa di più meditato e a tratti anche sofferto. Abbandonata la mia anima più garage rock ho dato più spazio alla parte poetica e cantautoriale della musica ricercando sempre di più la semplicità della forma unita alla comunicazione più matura del linguaggio e dei miei pensieri. Questo nero che pian piano ha impregnato la mia musica si è diffuso lentamente e come una macchia si è ingrandito ad ogni lavoro. Credo che a questo processo abbia sicuramente contributo la mia esperienza di vita, il mio maturare come uomo in primis e secondariamente anche come artista. Detto ciò non credo che la mia musica sia completamente intrisa di oscurità. C’è anche margine per la speranza e la redenzione e nel mio ultimo lavoro credo di aver messo in luce anche questi aspetti.

In quella storica intervista di De André in tv, parlando del disco “Tutti morimmo a stento” lui disse: questo è un disco che parla di morte. Potresti dire lo stesso se ti chiedessi qual è il punto verso cui guardano le trame di queste nuove canzoni?

Questo disco più che di morte parla di abbandono e di dolore. Di perdita. Di vuoto. Ad esso, come accennavo precedentemente, si unisce anche l’aspetto contrario, ovvero la speranza, la redenzione, la preghiera, in forma più intima e laica che religiosa, che porta alla vita, alla luce.

Faber cercava di restituire sacralità alla morte che invece diviene il demone nella società di oggi. La cultura occidentale non insegna altro se ci pensiamo. Dall’educazione infantile fino ai piani di marketing. Paura della morte invece che elemento della vita stessa. Nero Kane in vece che rapporto ha con la morte?

Ho un rapporto tipicamente romantico nei confronti della morte. In questo ricado appieno nei tòpoi del genere. Ne subisco il fascino, ne narro a mio modo le conseguenze, ma in parte, parlando di essa, parlo anche del suo superamento. Questa sorta di decadentismo si abbandona difatti anche a fulminei lampi di rinascita dove tutto ancora diviene possibile e conquistabile. Il mio rapporto con la morte è quindi di tipo dualistico, ne sono in qualche modo permeato ma allo stesso tempo la rifuggo in cerca di quella felicità, di quella tensione verso l’infinto a cui ogni uomo dedica spesso un’intera vita.

Prima di parlare del film che accompagna tutto il progetto vorrei puntare l’accento sul suono: arriva la sabbia dai diffusori. È nato prima il suono o poi l’immagine del deserto? Chi voleva rappresentare chi? E quanto la California ha influito sul potere immaginifico del disco?

È nato prima il suono. Il film è una conseguenza, un’idea nata per legare il sound del disco a dei luoghi e delle immagini che potessero non solo rappresentarne il lavoro ma anche ampliarne lo spettro comunicativo. Samantha Stella, la regista del film, da tempo al mio fianco per diversi lavori, ha colto questo linguaggio e l’ha fatto suo decidendo di lavorare a questo mediometraggio che si sviluppa interamente sul disco. Ogni brano è un capitolo del film. Il legame tra le due opere col tempo si è poi rafforzato ed ora ci piace vederlo come una sorta di unicum anche se di base è venuto prima il disco. La California ha influito enormemente sul potere immaginifico del disco. Per noi europei, poco avvezzi a quei paesaggi, il deserto rappresenta un luogo nuovo, affascinante e per questo sempre da scoprire. L’America, o meglio, una certa immagine di essa, gioca ancora un ruolo importante, almeno per me, nel mio immaginario e il deserto è esattamente il luogo dove questo disco poteva svilupparsi. Un deserto però europeizzato, quindi filtrato attraverso un punto di vista più europeo, e nel mio caso più oscuro e decadente.

Da tante parti si disegna il futuro del nostro pianeta come un divenire verso la distruzione, dunque decadimento e allo stesso tempo indifferenza verso queste problematiche. Come se non fossero importanti per il tempo che viviamo ma che se la vedano chi verrà dopo di noi. L’occhio di Nero Kane non mi pare quello di chi denuncia, piuttosto quello di chi descrive… sbaglio?

Nei miei lavori non c’è mai una denuncia diretta o esplicita. Ma c’è la consapevolezza inconfutabile della decadenza e questo incedere costante su questo tema per me rappresenta una sorta di denuncia. I miei brani, parlando di perdita, di solitudine, ma anche di amore e speranza, parlano di noi e racchiudono i sentimenti più semplici ma anche “paurosamente” comuni in cui tutti nel bene o nel male ci ritroviamo. Eterne vittime di noi stessi e del nostro modo di vivere.

E quindi eccoci a parlare di Samantha Stella, del deserto, del film che accompagna questo concept… raccontacelo. Se mi posso concedere un commento, trovo che le immagini siano assolutamente didascaliche al suono. Avrei forse preferito una qualche forma di trasgressione estetica, meno “scontata” se posso usare una parola sfacciata e forse troppo severe… invece siete rimasti assai legati alle visioni del disco… come mai?

Su questo aspetto non posso rispondere in toto in quanto io non sono l’artefice del film ma solo il protagonista. Quindi in questo caso il mio ruolo rimane quello di un semplice personaggio che si muove su uno sfondo. Personalmente credo che Samantha abbia deciso di lavorare volutamente rimanendo il più possibile legata ad una sorta di purezza formale che comunque è da sempre la cifra stilistica che contraddistingue tutti i suoi lavori. Non a caso il film non è stato post-prodotto e non ha subito nessuna alterazione. Tutto quello che vedi è reale. I colori, le luci, tutto è esattamente come lo vedresti tu se andassi in quei luoghi. In più il film vuole essere un lavoro che si basa sul disco, quindi che rimane strettamente entro questi confini senza nessuna velleità di andare oltre. È una sorta di accompagnamento visuale al disco e forse per questo motivo è rimasto così fedele ad esso. 

In alcuni tratti del disco come delle immagini, ho l’impressione che il messaggio portante sia la resa. Resa o resilienza, verso la vita… e da qui potrei condire il concetto di mille similitudini. Resa o resilienza all’incontro spirituale ma anche fisico, resa o resilienza dell’esserci oggi e del non esserci domani…

Onestamente non mi ritrovo in questa visione. Più che di resa parlerei di consapevolezza. Consapevolezza di un futuro incerto, forse per molti aspetti buio, ma che bisogna in qualche modo affrontare. Ad esempio, nel disco due brani sono tratti da due inni sacri della chiesa presbiteriana. In questi inni, che sono appunto preghiere, si parla anche di rinascita dopo la consapevolezza di aver sofferto. E anche vero però che il disco è profondamente legato alla malinconia e alla sofferenza derivata dalla perdita quindi da questo punto di vista può nascere la tua idea di resa o resilienza alla vita. Indubbiamente è uno degli aspetti che può rientrare nella visione del disco.

Il down-tempo che caratterizza tutto il disco, questo incedere monotono e cantilenante di tutti i brani… io l’ho trovato quasi avesse un rimando istituzionale alle liturgie (qual sia la religione portante), ho trovato che il timing del disco sia esso stesso il messaggio di decadimento e visione di vita… che mi dici?

Come accennavo precedentemente il disco ha anche una sfera più strettamente spirituale, in primis per l’utilizzo di inni sacri, in secondo luogo per questa tensione verso la morte/oscurità o verso la rinascita/luce. Ma più che di religione parlerei di semplice spiritualità laica. Il suo timing “funereo” è un aspetto che in realtà ricade prettamente nel mio modo di concepire le canzoni. Spesso lavoro su bpm non elevati proprio perché amo di più scrivere suite dilatate, spesso basate su loop, oppure ballate. Inoltre, questo incedere lento si sposa meglio con il mio modo di cantare e con la dimensione più intima, malinconica e cantautoriale in cui artisticamente mi ritrovo ora.

A chiudere: Nero Kane parlerà della vita nel prossimo disco?

La vita è per certi aspetti già presente in “Love In A Dying World”. Una vita tormentata, difficile ma che non esclude la felicità. Nel prossimo disco la vita sarà sicuramente nuovamente in gioco in questa continua lotta contro la sua caducità.