Un giorno conobbi Maurizio Montalbini. Un uomo massiccio, cauto, non tanto alto. Pareva un anacoreta del futuro, un gigante buono e dalle sembianze di un frate francescano. Eremita di montagna, lui, uno che viveva in estate dentro un Hotel che gestiva con pochissimi fidati. Lui che per la vita era uno scienziato, di quelli veri… nello specifico credo fosse un biologo se non ricordo male. Lui studiava il cronoma e disse che la vita - questa cosa che violentiamo tra frette industriali e scadenze di mercato, quella che umiliamo tra condizionamenti moralistici e competizioni sociali - acquisterebbe una forma quasi infinita, un benessere non conosciuto e mille potenzialità che neanche immaginiamo. E non parliamo di magia nera, cari signori, ma di scienza e di medicina. Se solo potessimo vivere in risposta ai soli bisogni fisici, biologici invece che farci scandire ogni ora e minuto da regole artificiali - come gli orologi o la televisione - riusciremmo a vivere una natura umana che ad ora possiamo vedere solo nella fantascienza del cinema. Potrei parlarne per ore ma non è questo il punto. Il vero punto è la ragion d’essere. Ecco un concetto che mi fa star bene. Vivere seguendo la pura natura e non secondo regole e schemi artificiali. Dunque: essere e non apparire. E noi invece demandiamo all’apparire estetico - anzi mediatico visto che oggi le due cose tendono a combaciare - il diploma di merito e l’ufficialità dell’esistere. Siamo perché è la TV che lo dice. Mangiamo ad ore quasi prestabilite perché è stata decretata quella come ora per il pasto. E ormai, pensateci: in automatico si smuove la fame all’ora stabilità per il pasto. Nessuno sei fino a quando loro non l’avranno veduto e non l’avranno letto… o magari fino a quando non l’avranno sentito dire da chi ha il l’autorevolezza per dirlo. Ma in fondo è tutta una farsa a cui ci prestiamo ignorando la vita stessa, ignorando appunto la sua ragion d’essere. E ancora, prendendo a morsi la discesa verso un’intimità spirituale e filosofica, così facendo stiamo insultando noi come individui. E lo facciamo anche e soprattutto manipolando il tempo come fa comodo alle industrie pesanti e al mercato dei burattini plastificati.
La voce d’arte e d’artista che rema in direzione ostinata e contraria è spesso ricca di uomini e di donne (individui elevati) che a tutto questo sanno voltare le spalle, consci di sposare volontariamente un’emarginazione mediatica, ma altrettanto fieri di raccogliere una celebrazione umana e di pubblico genuina.
E così spero un giorno di conoscerlo di persona Angelo Sicurella. Spero di poter riempire un calice di vino buono e di farmi una lunga chiacchierata, spaziando dal pensiero di Hegel fino ad arrivare al peso del cuore (concetto da cui ha tratto il titolo di uno spettacolo che traduce la pittura in musica). Mi fermerei a guardare con lui il tempo che scorre ascoltando la sua e la nostra musica per poi fare di tutto questo un pentolone di ingredienti buoni per generare altre forme d’arte e di linguaggio.
Lo conosciamo oggi per questo nuovo video realizzato da Manuela Di Pisa: un tempo, piccolo e lento e cadenzato per dare voce al brano intitolato “Yuki O”, singolo protagonista dell’eponimo esordio del 2017. In rete ci sono anche due remix di questa canzone a cura di Guenter Raler e Laura Agnusdei. Ma non è questo il punto. Il punto non è neanche l’estetica ed il giudizio di gusto che automaticamente associamo ad una canzone. Il punto è da rintracciarsi in ciò che insegnava Maurizio Montalbini: essere liberi da strutture artificiali. Solo così ognuno di noi arriva a diventare un essere superiore. Ed è con questo filo conduttore che Sicurella genera opere, tra pittura, danza, modulazioni di voce e musica che oltrepassano la frontiera della “consuetudine artificiale ed artificiosa”. Yuki O è una ragazzina che si ribella a suo modo al tempo che corre, al tempo che copre ogni cosa come fosse una nebbia, si ribella al tempo che non restituisce tempo per misurare noi stessi.
Ed è una scelta nostra, quella di correre e di non avere tempo. Soltanto nostra. Ma per quale ragione poi? Qualcuno conosce la risposta?
Ragioni di mercato, scuse sociali, o subdole induzioni politiche…
“Yuki O” si muove lentamente…
Ecco quale sarebbe una buona rivoluzione allora: procedere con un tempo buono, lento, giusto, libero, personale. Che qui siamo tutti in preda a continue gare, stremati col fiato corto per arrivare in prima posizione. Ma prima di chi e per fare che cosa poi?
Belle interviste che fanno pensare…
Parliamo di tempo. Ecco la prima parola che mi ha colpito in questo brano ma soprattutto in questo lavoro che ormai ha già una sua lunga storia alle spalle. Tempo come manifesto di vita quotidiana. Anzi come bandiera reazionaria alle abitudini quotidiane. Stiamo davvero correndo troppo, ovunque, in ogni direzione possibile. Ma c’è qualcosa di positivo che quantomeno dà senso a questo eterna nostra autodistruzione?
È una cosa che continuo a indagare. C'è un pensiero che un po' mi insegue. Lasciare le cose e cosa lasci al mondo. Il tempo che segna le strisce bianche delle strade verso un orizzonte che non conosciamo. Mentre tutto scorre ad una velocità quasi inafferrabile, la vita ci passa davanti gli occhi. A volte mi piace scavarmi dentro, affondare le dita nelle interiora della fragilità dell'uomo, strappare il cuore alla notte e mangiarlo a morsi. I testi in qualche modo parlano di un lato dell'uomo propenso all'autodistruzione, è vero, perché spesso siamo portati a quello o ci piace pensarla in questo modo. È una cosa che sembra insita nel codice genetico dell'essere umano. Basta guardare come è costruita la società. Il concetto del possesso e della ricchezza basata sullo strumento della prevaricazione ci fa già capire che se non mordi sei morto. Non tutto è così necessariamente. Il tempo alla fine è solo uno strumento che incide sulla qualità della vita. E molte cose fanno capo ad usi e costrutti sociali, che sono le impalcature dentro le quali precipitiamo quando nasciamo. Si sente a volte l'eco di qualcosa di diverso, ma nel mondo l'uomo spesso vuole tutto per sé. E quando ha tutto o abbastanza non sa che fare e cerca l'autodistruzione di sé e del luogo in cui vive. Anche solo guardando alle profondità del pensiero dell'essere umano, del contenuto dei ragionamenti, chi pensa scavando troppo in fondo ha bisogno di evadere anche da se stesso, drogandosi ad esempio, di annullarsi anche solo per due ore e di darsi pace. La mente spesso è una assassina della realtà. Lavora per la verità ma la verità non esiste neanche come concetto. Esiste la vita, che forse non ha alcuna ragion d'essere se non la vita stessa. Cosa c'è di positivo nell'autodistruzione? Due ore di tregua. E c'è un mondo che ci chiede di andare continuamente a seimila km/h quando non c'è un motivo valido quanto la vita stessa per farlo. Non c'è neanche una ragione di vita nel lavorare fino alla morte così come ci si impone di fare. Eppure, in qualche modo finiamo per entrare in questi meccanismi e diventare parte di un ingranaggio socioeconomico che ingrassa di niente di buono, come le mucche rigonfie dei famosi fast food. E la vita?
Angelo Sicurella è tanto altro oltre le canzoni. Restiamo ancorati al concetto di tempo: in altre forme estetiche, che sia pittura, che sia danza, che sia esperienza, celebri allo stesso modo il concetto di tempo?
In realtà non mi sento di celebrare il concetto di tempo. Mi sento di celebrare la vita. Il concetto di tempo mi insegue perché tutto sembra essere perennemente posto di fronte a una scadenza. E a mio avviso la vita e le scadenze sono delle cose che fanno a pugni. La vita dovrebbe avere a che fare con ciò che vuoi fare, non con quello che devi fare. La musica in tutte le sue forme rappresenta il modo di prendersi il proprio tempo e annullare le misure della scansione del tempo gregoriano. E questo molto spesso è dettato da come sono preso in un dato momento. Odio le strutture codificate delle cose. Non sarei in grado di fare una canzone o uno spettacolo sempre allo stesso modo e il solo pensiero mi fa venire l'orticaria. Questo significa un impegno maggiore sui miei strumenti, sulle mie macchine, sulla mia voce. Significa che, se sul palco in quel momento decido di virare su altro prima di rientrare in un brano, devo essere in grado di farlo. In questo modo mi concedo delle libertà, entrando e uscendo dalle strutture a mio piacimento e quando mi pare. Rubo il tempo al tempo e lo faccio mio. Ancora di più nelle performance di pittura sonora dove non esiste neanche un canovaccio. Esiste il sentirmi con Igor e il desiderio di venirci incontro. Io ascolto lui e lui ascolta me in una risultante sonora e visiva. Con il rischio di perderci, come in natura, nella vita.
La danza e a volte anche il teatro mi concedono di entrare in una parte puramente visionaria di me. Il suono è movimento e il movimento è danza. Questa continuità e complementarietà è una cosa meravigliosa. Quando scrivo, guardo molto al processo. La scrittura per me è una pratica quotidiana. Non mi interessa dove arrivo in quel preciso istante, è il processo che mi interessa. Mi fa scoprire delle cose che poi diventano la mia libreria personale di suoni. La danza, essendo per natura connotativa, mi porta a scendere ancor di più nei meandri di queste indagini e nella parte più visionaria di me.
E parliamo di voce. Per me è inevitabile il rimando a dischi come “Cantare la voce” di Stratos. Mi affascinano tanto gli artisti che sperimentano sulla propria voce. Noto che le tue esperienze cercano anche l’ausilio tecnico, quindi effetti da applicare alla voce più che cercare possibilità naturali della voce stessa… o sbaglio?
Al momento non uso nient'altro che un delay. Si, ci sono stati dei cantanti, annoverati nel mondo della sperimentazione che mi hanno letteralmente segnato. A diciassette anni, inciampai casualmente su Demetrio Stratos e me ne innamorai. Studiavo Stratos come si studia un libro di scienza. Per cui l'indagine del mio corpo è stato un punto di partenza fondamentale. Capire quale fosse la strada giusta disegnata sull'anatomia del mio corpo. Quando mi capitò per le mani Patton, che usava gli effetti sulla voce, l'esigenza emulativa era altrettanto alta e cercavo intorno qualcosa che potesse aiutarmi a distorcere la voce. Ma non avendo i soldi per recuperare anche solo uno zoom per chitarra da applicare al microfono, cercavo con la voce la maniera di emulare uno o più effetti che mi piacevano. È stato molto divertente. E questo mi ha dato la possibilità di collezionare suoni diversi della voce e di lavorare sul mio corpo. Col tempo ho messo da parte quello che mi sembrava superfluo o soltanto un gioco da circo. Ma quello che ho studiato su di me certamente è rimasto e lo uso, specialmente durante i live. Ogni tanto, a Palermo, con amici che suonano jazz o free o impro radicale, mi piace buttarmi nella mischia durante i loro concerti. Mi invitano, salgo sul palco e, dal nulla, ci tuffiamo in un mondo da scoprire sul momento. Questa cosa qui mi riporta sempre a quella parte di me, che in parte si vede anche nei live delle canzoni. Nei dischi c'è un uso variegato della voce, sia a livello timbrico sia sull'uso delle ottave. Molto spesso lavoro su un range di tre ottave, una bassa, una media ed una alta. Le stesse che uso ai concerti e con cui mi piace giocare. Di effetti al momento non ne uso. Sono alla ricerca di una distorsione che mi sconfinferi, ma al momento gli effetti che ho provato sono un po' plasticoni, un po' finti, nonostante siano in qualche modo blasonati.
Parliamo di questi due Re-mix. Perché questa idea e soprattutto perché queste due codifiche dello stesso brano? Sono capitate anche in uno stesso lasso di tempo o sbaglio? Insomma, è stato un progetto deciso o accaduto per caso?
L'idea dei remix è una cosa che mi è sempre piaciuta. È un modo per condividere la tua scrittura con altri musicisti che ti piacciono. È un modo per leggere le tue cose in maniera diversa, attraverso gli occhi di chi le rilegge e ci costruisce su. Quelle di Laura Agnusdei e di Guenter Råler sono due letture differenti dello stesso brano. Un desiderio, a cui è seguito un risultato, che è quello che è uscito in forma di EP di recente e che potete ascoltare su Spotify o su Apple Music.
Perché questo nome Yuki-O? Perché questo retrogusto sfacciatamente orientale?
Yuki O mi è capitato di usarlo come pseudonimo per fare altre cose di cui non ho registrato mai nulla. Ogni volta che volevo fare qualcosa di diverso c'era Yuki O di mezzo. Poi diventò un personaggio del mio disco, fu la prima canzone che ho scritto, buttata giù come un fiume in piena. Alla fine, ha letteralmente assorbito l'intero concept dell'album. Diventò il mio alter ego femminile, poi la protagonista di alcuni passi dei testi, così come colei che guardava dall'esterno le cose che stavo scrivendo. Non so perché mi ha sempre attratto questo nome venuto fuori dal nulla, come se mi fosse nato dentro. Di sicuro la musicalità, il suono, il significato, sono le cose che mi hanno rapito e che lo hanno fatto sentire mio.
Mi ha colpito tanto lo spettacolo di pittura sonora che si intitola “300gr”. Ci spieghi meglio come viene legato il concetto di pittura a quello di suono?
In “300gr”, che si chiama così perché trecento grammi è il peso approssimativo di un cuore umano, l'integrazione pittura-suono avviene attraverso una microfonazione della tela. Per me è fondamentale che tutto parta dal passaggio del pennello sulla tela. Così ho pensato di collegare dei microfoni alla tela di Igor, ognuno dei quali è collegato a un effetto diverso o a un commutatore di impulsi in suono e riversare tutto in un campionatore e in una loop station. Da lì parte tutto. Poi ritaglio, sommo, manipolo tramite gli effetti. Ecco perché la pittura diventa sonora, perché fisicamente ogni passaggio di pennello sulla tela diventa un suono che fa parte del panorama sonoro del movimento di Igor sulla tela e che diventa parte di quello che sto registrando in tempo reale come tessuto sonoro di quello che vado costruendo man mano.
La luce. Che rapporto hai con la luce? La luce non è solo immagine e non è solo colore. La luce è anche immaginazione, visione… forse ricordo… ti chiedo questo anche per capire se hai mai affrontato esperienze ed espressioni prettamente inerenti alla luce...
Mi stai chiedendo esplicitamente se ho mai fatto uso di LSD durante il giorno? Ahah. Scherzi a parte penso che sia più visionario il buio. La luce e insieme la vista sono molto spesso denotativi. Quando la luce viene a mancare o ha delle riflessioni strane, meno definite, i connotati degli oggetti si mistificano, i confini si perdono e gli oggetti all'occhio umano acquisiscono un'altra forma, un'altra profondità, un altro gioco di prospettiva, che molto spesso è utile e ci fa entrare in relazione con altro che non conosciamo, in grado di essere più affascinante di un sistema chiuso, come un oggetto confinato nella propria dimensione. Sarebbe così forse se il mondo perdesse il concetto di confini delle proprie nazioni inteso come sistema chiuso. Il mondo avrebbe tutt'altra prospettiva. L'uomo tornerebbe ad essere com'è per sua natura, libero di girare. Sarebbe senz'altro una bella visione. Ad ogni modo, mi piace osservare e assaporare quanto un gioco di luci riesca a farmi vedere altro da quello che c'è. È il motivo per cui non sono affascinato da ciò che è strettamente descrittivo. Così nei miei testi, così anche nella musica. Così la luce è profondamente affascinante perché c'è l'ombra a dargli la possibilità di mettere in risalto certe cose, offrendo a te la possibilità di vedere quello che sei capace di vedere e, in caso, di andare anche oltre.
Ed invece un altro elemento che torna sempre nella tua carriera, almeno di recente, è la danza. Perché e in che modo ci arrivi?
Mi piace mescolarmi ad altro, ad altri modi di esprimere qualcosa. Da anni collaboro con danzatori, danzatrici, attori, sia con la sperimentazione vocale, sia semplicemente per fare le musiche degli spettacoli. Ci sono arrivato sempre per curiosità. Ci sono rimasto per piacere di sperimentare e di usare questo connubio di suono e movimento per spingermi oltre con la scrittura. In questo periodo sto collaborando con Giovanna Velardi, stiamo lavorando ad uno spettacolo pensato come fosse un match dove i nostri guantoni sono il corpo e i suoni. Anche qui, il lavoro di improvvisazione è notevole. Contestualmente sto scrivendo le musiche per un altro coreografo palermitano, che è Giuseppe Muscarello. Qui il mio lavoro è più da osservatore e da traduttore in suono di quelle che sono le suggestioni che mi attraversano e lasciano delle impronte nelle mie cellule. E collaboro spesso con la mia compagna, Federica Aloisio, che è una danzatrice anche lei. EOIKA ad esempio è stato un lavoro di danza e teatro di figura che ha riscosso un notevole successo in giro. Ed è frutto di Federica e Sabrina Vicari, danzatrice anche lei, che collabora con Emma Dante. In EOIKA, il lavoro sulla musica ha partorito quello che ho chiamato Ready Played (coniando il termine dal concetto di Ready Made di Duchamp), ovvero un'orchestra inesistente di dischi che suonano insieme, tra gli autori più disparati (da Stockhausen a Debussy, dai Matmos ai Panasonic, a Peder Mannerfelt, Machine Fabrique, Stratos, soli di batteria di Max Roach o di Art Blackey) che suonano tutti insieme, mixati insieme e portati a spasso con l'ausilio di alcuni effetti. Un'orchestra di gente che non potrebbe suonare insieme se non in questo modo, a partire da lavori già esistenti.
A chiudere. Il progresso, l’elettronica, le contaminazioni in direzioni futuristiche. Ma da più parti si ha come l’impressione che si stia tornando indietro… vedi ad esempio il vinile che è tornato a dati di vendita incredibili. Che significa per te questo? Il tuo pellegrinaggio in ambito di sperimentazione arriverà mai a sbirciare indietro nel tempo?
Non credo si stia tornando indietro. C'è una sorta di gusto retrò su certe cose perché è più facile affidarsi al manierismo piuttosto che vomitare quello che hai dentro alla maniera in cui lo diresti. Il vinile torna come fenomeno sociale e come fenomeno modaiolo. Fenomeno sociale perché credo che se qualcuno debba comprare un oggetto al di fuori del quotidiano ascolto in rete, preferisca il vinile, anche solo per un fattore estetico, di bellezza dell'oggetto, anche perché poi sulla qualità dell'ascolto c'è un altro discorso da fare, legato alla catena che va dal disco al supporto con il quale ascolti e da cui esce il suono. Il mio personale pellegrinaggio nella sperimentazione ad ogni modo guarda sempre indietro, soprattutto perché il passato molto spesso ti rende chiaro ciò che usiamo nel presente e come e perché. Attingere dal passato è fondamentale, non fosse altro che solo per avere gli strumenti per discostartene.