Gli ultimi anni sono stati decisivi per la carriera di Beth Hart: dischi importanti, a partire da quelli nati dalla collaborazione con Joe Bonamassa, la consacrazione artistica, la visibilità mediatica, che l’ha portata a essere considerata stella di prima grandezza nel firmamento rock blues in quota rosa, e quel successo, anche commerciale, inseguito ormai da più di tre decenni.
Non è un caso, quindi che lo scorso anno, abbia portato in bilancio due premi importati (un Blues Music Awards e un Blues Blast Awards) e due live strepitosi (From And Center e Live At The Royal Albert Hall) che hanno aperto la strada a un tour che ha registrato sold out un po' ovunque. E non è un caso nemmeno che questo nuovo War In My Mind sia uscito a ridosso di questo momento estremamente favorevole per la cantante e songwriter losangelina, quasi necessitasse una riaffermazione della gloria incassata, motivata dal vecchio andante che recita che è meglio battere il ferro finchè e caldo.
Insomma, l’impressione è che la Hart non si sia accontentata di vincere ma abbia voluto stravincere, cercando di portarsi a casa tutto la posta in gioco. Il risultato, però, è veramente deludente. War In My Mind, spiace dirlo, è il capitolo peggiore della carriera dell’amata Beth, e sono molti gli aspetti negativi di un disco che non riesce a reggere il passo con le cose eccelse ascoltate in passato, anche quello più recente. Le dodici canzoni in scaletta suonano esattamente per quello che sono: degli scarti imbellettati per apparire nuovi, ma privi di quegli elementi che rendono credibile un disco, e cioè ispirazione e pathos.
Questi brani, se mi si passa il termine, sanno di minestra riscaldata, sono fotocopie sbiadite di quelle canzoni che abbiamo già ascoltato cento volte e che facevano un’ottima figura nei due precedenti Fire On The Floor e Better Than Home. E siccome la Hart stupida non è, ha capito che per dare brillantezza a questo repertorio grigio e consunto, era necessario cambiare il guardaroba. Purtroppo, la pezza è stata peggio del buco, e Rob Cavallo, chiamato in consolle in veste di produttore, ha fatto danni a dir poco esiziali.
Gli arrangiamenti, infatti, sono pesanti, paludati, leziosi, cercano a tutti i costi l’ammiccamento mainstream e finiscono per essere solo zuccherosi e ammorbanti. Lo dico veramente con il massimo rispetto per un’artista che adoro, ma è difficile trovare qualcosa che si salvi dallo sfacelo. Quindi, se davvero si vuole creare un momento Titanic, e cioè quella parte di recensione in cui si salva il salvabile mentre il bastimento affonda, citiamo l’iniziale Bad Woman Blues, ruffianissimo brano rock gospel in cui piano martellante e handclapping riusciranno a guadagnarsi parecchi passaggi in FM. E cito anche, ad abundantiam, la conclusiva I Need A Hero, sentita e risentita, certo, ma almeno pervasa di autentica commozione. Il resto, ahimè, non fa onore alla Hart, alla quale non si può certo imputare di non saper cantare (e anche in questo caso dà la paga a centinaia di voci femminili tutte uguali), ma solo di aver voluto far uscire un disco senz’anima.
Il quale, peraltro, annovera anche due tentativi di spostare il cuore della narrazione verso stili diversi, ma con esiti imbarazzanti: il dance rock di Sugar Shack (i Blondie in sottotraccia, a voler essere generosi) e la spagnoleggiante Spanish Lullabies, con tanto di chitarra alla Gipsy Kings (!), fanno cadere il latte alle ginocchia. Mossa avventata, poi, aver inserito nella versione deluxe due brani dal vivo a fine scaletta: la differenza fra questa Beth Hart e l’altra si sente e lascia, purtroppo, senza parole. In una carriera praticamente senza macchie, un passo falso ci sta. Speriamo sia anche l'ultimo.