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REVIEWSLE RECENSIONI
09/08/2017
Jillette Johnson
All I Ever See In You Is Me
Jillette scrive canzoni che potremmo definire di adult pop, se la definizione non fosse assolutamente riduttiva: nella sua musica, infatti, confluiscono elementi west coast, americana rivisitata in chiave indie, melodie pop da FM seventies e leggere inflessioni jazzy

Se c’è un vantaggio ad ascoltare centinaia di dischi all’anno e dei generi più disparati, è quello che, un po’ per allenamento e un po' per l’offerta che, diciamo così, non è sempre di primissimo livello, si finisce per riconoscere al volo le grandi canzoni. All I Ever See In You Is Me, sophomore della songwriter newyorkese, Jillette Johnson, ne è pieno. Canzoni a cui è difficile rinunciare, canzoni perfette nelle loro accattivanti melodie, canzoni che messe sul piatto suonano subito come istant classic, roba che fra un decennio continueremo ad ascoltare con enorme soddisfazione. Ventotto anni appena compiuti, nata in California, ma cresciuta a New York, dove fin dall’infanzia ha iniziato a suonare il pianoforte, Jillette Johnson è una di quelle musicista che vorremmo fossero in vetta alle classifiche, ma che, a ben vedere, sono troppo raffinate e complicate per poter piacere a tutti. Poco male: coloro che avranno la fortuna di ascoltare questo disco, si sentiranno dei privilegiati. Jillette suona il piano e canta, con un timbro da soprano nitido, cristallino, potente. Niente a che vedere, però, con Regina Spektor o Tori Amos, artiste con le quali verrebbe da fare un immediato paragone. La Johnson somiglia per mood più a una Lana Del Rey meno torbida e crepuscolare, e per creatività compositiva, invece, non è affatto peregrino un paragone con Laura Nyro. Jillette scrive canzoni che potremmo definire di adult pop, se la definizione non fosse assolutamente riduttiva: nella sua musica, infatti, confluiscono elementi west coast, americana rivisitata in chiave indie, melodie pop da FM seventies e leggere inflessioni jazzy. Il tutto condito da una vena drammatica che non sfocia mai nel melò, ma che vibra semmai di autentico pathos. Se a produrre, poi, è il plurivincitore di Grammy Awards, Dave Cobb (Jason Isbell, Chris Stapleton, Sturgill Simpson) il risultato è garantito. Le undici canzoni in scaletta vi ruberanno il cuore, statene certi. A partire dall’incipit pianistico di Bunny, tanto languida da commuovere alle lacrime, non c’è un colpo che non vada a segno. Love Is Blind è un numero alla Stevie Nicks, un velo d’oro e di seta che si perde nel vento della notte. Da brividi. Brividi che tornano copiosi nella successiva Throw Out Your Mirror, una ninnananna pianistica, sommessa ma diretta, che terrà compagnia alle vostre pene d’amore, qualora aveste bisogno di una colonna sonora per lo struggimento. Questa è perfetta. Se Holyday è un mid tempo dall’appeal radiofonico e dal retrogusto “notturno newyorkese”, e Flip A Coin, gioca col chiaro-scuro di accordi in minore, I’m Sorry è una di quelle ballate anni ’70, che suonata dal vivo, accende in un lampo migliaia di accendini. Tutti abbracciati, vicini vicini, a cantare insieme nel cuore della notte. E potremmo citare anche le altre canzoni di questo splendido album, cosa che evitiamo per motivi di spazio. Un cenno, però, va a In Repair, lentone intriso di cupa malinconia, il cui ritornello stende come un uppercut da K.O., dimostrando ulteriormente che ci troviamo al cospetto di una ragazza che compone con maturità da veterana e interpreta col cuore che sanguina con la passione dei vent’anni. Merito anche di Cobb che ha lo straordinario dono di mettersi al servizio degli artisti che segue, spingendo al massimo sulle loro potenzialità ed evitando rimaneggiamenti invasivi. Un disco che a fine anno sarà sicuramente ai piani alti delle nostre classifiche e che, ci scommetto un paio di birre, possiede tutti i numeri per aggiudicarsi un Grammy Awards.