E lasciatemi dire che fa strano ma forse neanche troppo, vedere che per la prima volta le sue idee un po’ estreme e un po’ anacronistiche hanno trovato più fischi che applausi (almeno a giudicare da quanto letto superficialmente nei social).
D’altronde ai tempi di “Undici canzoni di merda con la pioggia dentro” al governo c’era Salvini, da più parti si gridava alla dittatura, si giocava a fare i partigiani e personaggi come Carola Rackete diventavano eroi nazionali per qualche settimana. Oggi che il vento, almeno a Palazzo Chigi, è cambiato e la pandemia ha inaspettatamente procurato all’attuale governo più consensi di quelli che era lecito immaginare, fa ancora più strano leggere su una nota rivista musicale, a proposito di questo nuovo disco, che “talvolta è difficile condividerne i contenuti, per esempio quando si riferisce a una presunta militarizzazione del paese” quando chi ha scritto questa recensione, solamente due anni prima fece parecchi tentativi di far dire ad un altro artista italiano piuttosto noto, che nel nostro paese era in corso uno stato di regime.
Nessuna presa di posizione politica da parte mia, che non vi venga neppure in mente. Molto più banalmente, sarebbe corretto riconoscere un po’ più di coerenza ad un artista che ha sempre detto queste cose qui, in qualunque anno, con qualunque maggioranza e con qualunque situazione (andatevi ad ascoltare “Alé alé” o “Carmagnola #3”, giusto per dirne due).
Giorgio Canali è un anarchico vero, è uno che non si piega, che non tollera accomodamenti e chi scrive lo ha sentito spesso esternare posizioni estreme, come quella volta che lui e Massimo Zamboni litigarono furiosamente sull’effettiva utilità odierna del 25 aprile (trovate tutto nel documentario “Breviario partigiano” del 2015, se vi va) e lui non disse cose molto diverse da quelle sputate con amaro sarcasmo in “Circondati” (“L’autorevole compagno dice: ‘Onore alla Resistenza!’ Sia ben chiaro, solo a quella di ottant’anni fa”).
E quindi non stupiamoci se oggi, con una situazione di emergenza sanitaria che ha messo a nudo in modo fin troppo crudele le contraddizioni del neo capitalismo e di certi aspetti della società occidentale, Giorgio Canali se ne esca con l’episodio più arrabbiato e sferzante della sua discografia, un manifesto di rabbia politico-sociale ma anche (e forse soprattutto) esistenziale, un disco che è a tratti quasi un’elegia rassegnata per un mondo che a breve cesserà di esistere ma allo stesso tempo anche un’ammissione più o meno definitiva di fragilità e debolezza, un grido d’aiuto che nasce già disilluso perché sa, in fondo, che nessuno lo raccoglierà. E in questo senso è il suo lavoro più amaro, perché l’ironia che saltuaria compariva in precedenza ora non c’è più, quasi che la tonalità viola che domina la (bellissima) copertina si fosse portata via tutto, lasciando solo il dolore del lutto.
Ci sono venti canzoni, qui dentro. Perché la notizia del giorno, oltre al fatto che l’artista ferrarese ci ha messo così poco a far uscire del materiale nuovo, è che questo materiale è prolifico come mai era accaduto. Il titolo gioca nuovamente coi numeri e a questo giro è “Venti”, come il numero dei brani contenuti, per un totale di 79 minuti di musica. Particolare inutile ma che mi ha fatto impressione: da più parti ho sentito parlare di “album doppio” e forse niente come questa definizione buttata lì con noncuranza avvalora la tesi del presunto ritorno del vinile, dato che questi sono tutti pezzi che stanno dentro in un singolo cd.
È un lavoro pieno di roba e sorprendentemente eterogeneo per uno che, lo dice pure lui, ha sempre e soltanto scritto la stessa canzone per quasi trent’anni. Aggiungiamo pure che è uno dei suoi migliori e che, chissà, acquistando un po’ di prospettiva storica potrebbe pure diventare il suo migliore in assoluto, nonostante l’impegnativa sfida costituita dall’ascolto.
La ragione? I Rossofuoco non hanno mai suonato così bene: i suoni sono potenti e la band è su di giri, spacca a dovere nei brani più rockeggianti e sprigiona feeling e intensità negli episodi più lenti, come se avesse imparato a “sentire” ogni nota, come se ogni canzone fosse quella dove fare la somma di una vita intera.
Testimonianza inequivocabile di un collettivo che è cresciuto concerto dopo concerto e che oggi suona a memoria, coi quattro che sono più affiatati che mai e che riescono a suonare dal vivo pur avendo registrato le loro parti separatamente (e qui sta probabilmente il più grande punto di forza del disco).
Si parte forte con “Eravamo noi”, che ha la forma della ballata ma con aperture elettroniche inedite (in generale c’è molta più tastiera del solito in questo lavoro e spicca anche la presenza del violino, suonato da Andrea Ruggiero) e un testo dalla costruzione letteraria magnifica, che rilegge diversi decenni di storia italiana attraverso cenni autobiografici; dal terrorismo al ventennio berlusconiano, passando per Craxi, la Milano da bere e il caso Calvi, unico filo conduttore le persone che l’autore chiama “i vecchi”, che è poi come lui vede di volta in volta la generazione più avanti della sua, sempre e comunque ossequiosa al potere dominante per finire, nell’ultima strofa, dominati dalla “paura di crepare”. È la narrazione di un periodo che, parafrasando le sue stesse parole, appare più neorealistico che distopico.
È un brano quasi acustico ma l’intervento della chitarra elettrica nella seconda parte è lancinante, pare quasi dare forma a quel vuoto di cui si parla alla fine e che in un certo senso è presente un po’ in tutte queste canzoni.
Niente da dire su “Morire perché”, già uscita come singolo e a conti fatti uno degli episodi meno sorprendenti, anche se il ritornello in spagnolo alza il ritmo e le conferisce un’ulteriore carica battagliera.
“Nell’aria”, con una linea vocale quasi recitata ed una musicalità spettrale, è uno dei pezzi più forti, nonché possibile summa di tutta una carriera e manifesto di un’intera epoca, di cui questo 2020 ha costituito una perfetta cartina di tornasole. L’immagine conclusiva dei “50 milioni di cervelli lavati e stesi ad asciugare sul balcone” non piacerà a molti ma fotografa lo stato dell’arte molto più di mille analisi politico sociali sull’argomento.
Potremmo andare avanti e citarli tutti e venti, perché nonostante ci sia qualche fisiologico calo di tensione qua e là e non tutto sia al medesimo livello di ispirazione, non c’è un solo momento che non riesca a piantarci almeno un chiodo dentro la coscienza.
E allora via con la cupa disperazione di “Wounded Knee”, che sa di fine del mondo, tra istantanee di Venezia e Firenze e una chitarra solista straziante sotto il cantato che enfatizza quell’invito tremendo del “Ti porto a vede il buio fantastico che è dentro il mio cuore”.
Oppure il Combat Rock di “Inutile e irrilevante”, che alleggerisce un po’ l’atmosfera facendo il verso ai Clash ma in fondo suscita un altro amaro interrogativo: quante sono le realtà dimenticate, oggi che nel nostro paese sembra esistere solo il Covid-19?
Bella anche “Tre grammi e qualcosa per litro”, che all’inizio gioca con atmosfere Post Punk e si scioglie nel ritornello, un’apertura melodica non dissimile a quanto fatto in passato su “Nuvole senza Messico”.
Oppure “Raptus”, divertente scorreria nel campo del rock vecchia scuola, con un rimando neanche troppo velato alla “Not Fade Away” di Buddy Holly, coi Rossofuoco che sembra incredibile non stiano suonando assieme, da tanto ci danno dentro.
Se glielo fate notare può darsi che vi prenda a pugni (ve lo ricordate come dava in escandescenze quando qualcuno faceva ondeggiare un accendino durante “Lezioni di poesia”?) ma Giorgio Canali è sempre stato anche un grande autore di canzoni d’amore, seppure il suo romanticismo sia spesso contaminato da punte di amarezza e disillusione. A questo giro arrivano “Acomepiddì”, che suona già sentita ma costituisce uno dei pochi momenti di autentica dolcezza in questo lavoro, mentre CDM (che sta per “canzone di merda”, nel caso ve lo steste chiedendo) riesce ad essere quasi commovente nella sua disarmante sincerità.
E se “Circondati” e “Viene avanti fischiando” proseguono il discorso dell’assalto frontale, con la band lanciata al massimo della potenza e dosi massicce di frustate verbali verso una leadership debole e un’opinione pubblica troppo acquiescente, “Vodka per lo spirito santo” è forse il punto in assoluto più alto di questo lavoro, una ballata acustica e notturna, che lui dice essere un omaggio a Mark Lanegan (evidente anche dal titolo, che cita esplicitamente il capolavoro “Whiskey for the Holy Ghost”) dove non ha paura di mettere in primo piano le sue fragilità e il suo bisogno d’amore, permettendoci di dare uno sguardo nella sua intimità con una crudezza quasi bukowskiana.
Infine, “Rotolacampo” chiude questo viaggio da un’ora e venti con un tono di delicatezza inaspettata, come se occorresse un ristoro dalle fatiche e dagli incubi che le canzoni precedenti hanno provocato. È una ballata spudoratamente Folk, armonica e chitarra acustica come nei primi dischi di Bob Dylan, che non si vergogna di suonare anacronistica e che si lascia andare ad una sincerità che non si può non trovare commovente (“E dai che si sa che non sono sincero quando dico in giro che non cerco la felicità”).
Occorre finire come abbiamo iniziato: benedetto il lockdown, almeno questa volta. Perché Giorgio Canali e i Rossofuoco ci hanno regalato un disco che sembra davvero destinato a restare, probabilmente il più importante della loro carriera e, almeno per il sottoscritto, tra i più belli usciti quest’anno in Italia. Nell’attesa di tornare ai concerti e di urlarle tutte a squarciagola sotto il palco.