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REVIEWSLE RECENSIONI
01/10/2017
Simo
Rise & Shine
Simo e soci, pur non tradendo il loro retroterra rock blues (aggiungendo, forse, un pizzico di soul in più), tentano di mischiare almeno un poco le carte, lavorando molto sul suono in fase di (auto)produzione

Uscito a fine 2015 negli States, l’esordio bomba dei Simo (in realtà c’è anche album precedente prodotto su bassa scala) è arrivato da noi prima come eco, poi, finalmente, a fine gennaio 2016, in versione cd e vinile, trasformandosi fin da subito nell’oggetto del desiderio degli amanti del rock blues targato seventies. La storia legata al gruppo è una consueta storia di gavetta, di centinaia di concerti in giro per piccoli locali, di una partecipazione come seconde linee a un paio di grossi festival, e del colpo di culo di essere stati notati e messi sotto contratto dalla Provogue. JD Simo, cantante, chitarrista e leader in pectore della band (che porta il suo nome) è cresciuto come tanti ragazzini ascoltando i dischi del papà e cimentandosi precocemente alla chitarra, strumento che fin dall’età di dieci anni già suonava discretamente. Il blues nel cuore, una prima band e un Ep dal vivo a distribuzione limitata, la vita vagabonda del musicista, l’attività di sessionista intrapresa per sbarcare il lunario, le canzoni tenute nel cassetto, l’incontro con il batterista Adam Abrashoff e il bassista Frank Swart (ora sostituito da Elad Shapiro) e, quindi, la nascita dei Simo. Poi, sudore e passione, un girovagare senza meta fra pub e music hall e finalmente il successo con Let Love Show The Way. Un disco che nasceva già con le stigmate della leggenda, visto che fu registrato a Macon, Georgia, nella Big House in cui vissero per un po’ di tempo gli Allman Brothers Band (Simo, durante le sessioni di registrazione, ha potuto imbracciare e suonare la mitica Gibson Les Paul datata 1957 di Duane Allman). Quell’esordio era un disco di rock blues tagliato hard con spezie retrò anni ’70. Niente di nuovo, ovviamente, e anzi una scrittura smaccatamente derivativa che si ispirava alla potenza dei grandi power trio del passato (Cream, Jimi Hendrix Experience, James Gang e i primi Gov’t Mule), e che citava anche hard blues anglosassone (Led Zeppelin, Edgar Broughton Band) e southern (gli Allman e i Black Crowes). Tuttavia, nonostante i Simo rimasticassero veramente tutto lo scibile del genere, piacquero da morire per il furore che ci mettevano, per quel fuoco sacro che accendeva il cuore dell’ascoltatore quando gli strumenti partivano al galoppo, senza che fosse chiaro fin dove potessero arrivare. Giunti alla seconda prova in studio, Simo e soci, pur non tradendo il loro retroterra rock blues (aggiungendo, forse, un pizzico di soul in più), tentano di mischiare almeno un poco le carte, lavorando molto sul suono in fase di (auto)produzione. Il risultato è un disco più ragionato e molto meno immediato e le canzoni finiscono talvolta per invischiarsi in un eccesso di effettistica, sia nell’uso della chitarra che delle voci. Quando i ragazzi fanno il loro, cioè quello che avevamo apprezzato nel precedente Let Love Show The Way, strappano applausi a scena aperta: Light The Candle e Be With You, ad esempio, travolgono con una potenza di suono spinta ai limiti del noise. Per converso, in altri casi, (Return, per tutte) sembrano perdere il filo della matassa e fare molta confusione, pasticciando con un genere che sarebbero, invece, in grado di interpretare al meglio. Chiudono il disco l’inutile acustica The Light, copia carbone di In The Pines di Leadbelly, e I Pray, pretenzioso rock psichedelico, appesantito da un lungo intermezzo strumentale (cose che facevano i Led Zeppelin dal vivo quarant’anni fa). Rise & Shine, dunque, se da un lato ribadisce le grandi potenziali dei Simo, irresistibili quando giocano la carta dell’immediatezza, dall’altra testimonia del momento interlocutorio della band che, in tutta evidenza, sta cercando, con risultati non brillantissimi, di rimodernare il proprio suono. Non bocciati, certo, ma rimandati al prossimo disco, si.