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REVIEWSLE RECENSIONI
07/07/2017
The Delta Saints
Monte Vista
Meno bayou e più pop: la svolta mainstream della band di Nashville

L’ultimo capitolo della discografia dei The Delta Saints è figlio di un lungo percorso artistico, che ha visto la band originaria di Nashville sgomitare in una lunga gavetta fatta di migliaia di concerti e dischi autoprodotti. Poi, nel 2013, arriva Death Letter Jubilee, disco pubblicato grazie al crowdfunding (quella pratica di micro finanziamento dal basso, che oggi va tanto di moda e che spesso dà risultati sorprendenti), e primo successo in termini commerciali. Un disco rumoroso, sporco, connotato da riffoni hard a volte rallentati dal passo lento del blues, in altri casi accelerati dall’urgenza del rock’n’roll. Forti dei buoni risultati di vendite e dell’attenzione da parte della stampa specializzata, i Delta Saints iniziarono a plasmare il proprio suono, spogliandolo dei preponderanti accenti roots, per arricchirlo con un songwriting personale e ricco di idee. Bones (2015), questo l’album della definitiva svolta, pur avendo come base di partenza un rock blues declinato con accenti sudisti, che guardava alla tradizione di caposcuola come i Black Crowes e suggeva linfa vitale da riff classici di derivazione zeppeliniana, finiva per suonare “diverso” grazie a contaminazioni funky, garage e acid e a un pizzico di pop che rendeva irresistibili melodie di facile presa. Monte vista è il perfezionamento di quel suono, un ulteriore passo verso una nuova maturità creativa, che non rinnega completamente il passato né la sporca essenza southern dei loro esordi, ma che, grazie a una produzione curatissima (Eddie Spear, già con Jack White e Arctic Monkeys) compie una perfetta fusione fra alternative e mainstream. In tal senso l’opener California è un up-beat antemico: riff dal retrogusto blues, melodia impeccabile, perfetta radio song. Il fango del Mississippi si può trovare ancora nella slide e negli umori cupi di Are You?, mentre Sun God fonde echi seventies con un tiro che ricorda le cose migliori dei King Of Leon, e la ballata conclusiva Two Days chiama in causa addirittura i Soundgarden riletti con un tocco di psichedelia. Monte Vista è complessivamente un disco che, però, cambia le carte in tavola e che probabilmente non piacerà a tanti fan della prima ora, abituati a un suono più sporco e a un approccio più diretto e bluesy. D’altronde, non si può non evidenziare che alcuni passaggi dell’album sono così marcatamente ruffiani da far venire in mente addirittura i Coldplay (Space Man, Young and Crazy). Eppure, il disco suona coeso e piacevole, le idee non mancano e la band appare in grande spolvero. Meno bayou e più pop, insomma: un compromesso non esaltante per gli amanti del rock più verace ma, senza dubbio, una svolta in grado di creare nuovi (e più giovani) adepti alla causa.