E’ un fatto curioso come, dopo il clamore dei primi due album, oggi la stella di Anderson East sembra sia un po' appannata, tanto che questo nuovo Maybe We Never Die, uscito ad agosto, sia passato, almeno da noi, pressoché sotto silenzio. Strano, perché il disco viene rilasciato come di consueto sotto l’egida Elektra, perché a metter mano alla produzione è ancora quel geniaccio di Dave Coob (Jason Isbell, Chris Stampleton, Sturgill Simpson, tra gli altri) e perché, anche al terzo lavoro, East continua il suo viaggio a ritroso nel mondo del soul.
A differenza dei precedenti, e qui probabilmente sta l’arcano, il songwriter di stanza a Nashville, si approccia al soul declinato attraverso la lente storica degli anni ’80, periodo in cui, spesso, il genere era pesantemente imbastardito dal pop. Così, la scaletta risulta decisamente meno verace di quelle precedenti, e il suono, più leccato e patinato, si abbandona talvolta a qualche eccesso di zuccheri. Una svolta decisamente mainstream, che ha fatto storcere il naso ai fan della prima ora, ma che negli intenti del musicista ha, tuttavia, centrato il bersaglio, visto che quel suono, piaccia o meno, torna a risplendere con lucente brillantezza.
A dispetto, però, della leggerezza della musica proposta, Maybe We Never Die nasce da una profonda riflessione esistenziale, a cui Anderson East ha dato forma, guardando la propria nonna vivere in preda ai tormenti dell’alzheimer. Osservare il progredire delle privazioni sensoriali, il deperimento mentale nonostante la fisicità intatta, la necessità di immaginare una vita oltre le coordinate di quella comunemente accettata, sono stati gli stimoli per portare a compimento il disco. I cui intenti, espliciti, sono quelli di cercare speranza e conforto di fronte alla caducità e finitezza dell’esistenza umana.
Riflessioni che hanno ispirato non solo la title track (splendida ballata dal cuore gonfio di pathos), ma anche altre canzoni, come ad esempio "Drugs", brano che evoca un mood da Febbre Del Sabato Sera (geniale l’assolo di flauto), e parla delle ossessioni della gente che diventano vere e proprie ragioni per sopravvivere e uno scudo per difendersi dalla follia del mondo. Così come l’amore, sentimento che aiuta le persone a trovare un senso alle loro vite spesso troppo insipide, e che East canta, con la sua voce ruvida e avvolgente, nella morbida e sensuale "Lights On", nei sentori agrodolci della delicata "Like Nothing Ever Happened", sicuramente uno dei momenti migliori del disco, o nel singolo "Madelyn", brano dalla lunga gestazione, costata due mesi di lavoro, salvo poi utilizzare il primo take, il più semplice di tutti.
Se alcuni momenti sono decisamente da dimenticare ("Hood Of My Car" e il suono pestilenziale della batteria elettronica sono davvero inascoltabili), in altri il songwriter di Nashville apre all’ascoltatore il dancefloor, tirando fuori dal cilindro due bombe festaiole, come il groove funky e tritatutto di "Falling" e la dance di "Jet Black Pontiac", dimostrando che si può fare un disco che parla di argomenti serissimi, senza dimenticare che la vita è anche divertimento, e che si può ballare, come le lacrime agli occhi, fino alla fine del mondo.