Nonostante le mille difficoltà vissute in questo infausto periodo, il Covid, la pandemia e il lockdown non sono riusciti a interrompere la sorprendente traiettoria di questi quattro ragazzi di Wigan, che in una sola settimana dalla pubblicazione del loro album d’esordio sono saltati in cima alle classifiche inglesi. Il coronamento, questo, di un anno vissuto intensamente, passato a raccogliere consensi di artisti del calibro di Paul Weller e Elton John, e fondi per la squadra di calcio locale, tolta dagli impicci di una situazione finanziaria complessa, grazie ai profitti di un concerto a cui hanno assistito più di cinquemila spettatori (numeri notevoli se si pensa alla breve storia artistica della band).
Ovviamente, i Lathums, hanno anche portato a termine il loro album d’esordio, levigando e perfezionando un pugno di canzoni fresche, divertenti e godibilissime. Un’ascesa repentina, che qualcuno, non a torto, ha voluto paragonare a quella degli Arctic Monkeys (che nel 2006, prima ancora di pubblicare il loro esordio, Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not, si erano già costruiti un hype da paura), e che vede il quartetto inglese cimentarsi con un retrò pop che guarda agli anni ’80, quando gli alfieri di quel suono erano band come gli Smiths e gli Housemartins: chitarre sbarazzine, melodie irresistibili e la capacità, non da tutti, di creare irresistibili inni da stadio.
Il disco si apre con "Circles Of Faith", che scorre rapida su una linea di chitarra rubata a Johnny Marr, mentre il cantante Alex Moore, come novello Morrissey, s’interroga sul senso dell’esistenza (“All Of These Things They Are Just A Part Of Life, No Matter What You Do, Well The World Is Turning, Who Am I”). Gli Smiths sono evocati anche nella superba "The Great Escape" (potreste addirittura prenderla per un inedito della grande band mancuniana) o nella saltellante "Oh My God", mentre gli Housemartins vengono evocati nella volatile leggerezza di "I’ll Get By" o nell’innodica title track.
Passatismo e nostalgia, certo, ma anche devozione nei confronti di tanti illustri riferimenti artistici, e, soprattutto, un approccio corroborato da giovanile entusiasmo, che rende frizzanti e freschissime queste dodici canzoni dal soffio vitale rinfrancante.
Sa scrivere, eccome, il leader Alex Moore (autore esclusivo di quasi tutti i brani in scaletta), e lo fa anche al di fuori di quella che potremmo definire la comfort zone dei Lathums: il giro di basso che attraversa "I See Your Ghost" apre le porte dell’ascolto a un inaspettato e salmodiante ska, "I'll Never Forget The Time I Spent With You" affronta il tema della perdita sul velluto acustico di una melodia zuccherina, "Fight On", momento clou dei live act della band possiede la potenza di un vero e proprio inno da stadio, i riff sporchi e distorti di "Artificial Screens" mostrano il lato più rock dei Lathums, mentre la conclusiva "The Redemption Of Sonic Beauty" è una commovente ballata per pianoforte che sembra uscita dal songbook dei Queen.
Non è un caso, quindi, che i quattro ragazzi di Wigan, in pochissimo tempo, siano balzati in cima alle preferenze degli ascoltatori inglesi: questo è brit pop dal nobile pedigree, declinato con consapevolezza filologica e restituito alla sua originaria bellezza grazie a una rilucente scrittura. Per tutti coloro che hanno vissuto in prima persona quella, ormai lontana, ma leggendaria stagione, l’attrazione verso i Lathums sarà fatale; tutti gli altri, invece, si troveranno per le mani uno dei dischi pop rock più divertenti e intensi dell’anno. Non fatevelo sfuggire.