Non è stato per niente facile catalogare il genere del James Taylor Quartet: in che modo mettere sotto lo stesso tetto una potente e tonitruante miscela esplosiva di R'n'B, funk, jazz, spy movies, fusion e soul? Un po’ come shakerare Jimmy Smith, James Brown e Lalo Schifrin, aggiungervi Brian Auger, Herbie Hancock, George Benson e Booker T. Jones, con una tenue spruzzatina di Nice e Caravan, poi irrobustire il tutto con un goccetto di Deep Purple, infilando nel final mix un pizzico di “classicità” grazie a Johann Sebastian Bach. Così, proprio dopo la metà anni ottanta, il JTQ viene assimilato ad altri gruppi, fra i quali gli Incognito e i Brand New Heavies che hanno sperimentato un’impetuosa mescolanza –anche se con ingredienti diversi- e per cui è stato coniato un nuovo termine, acid jazz. L’idea azzeccata del nome nasce quasi per gioco dal club dj e conduttore radiofonico Gilles Peterson: nel momento in cui nei locali dance spopola l’acid house il compare Chris Bangs all’improvviso butta su un disco diverso, con un groove pazzesco d’altri tempi, facendogli esclamare la famosa frase “Fanculo, se quella era acid house, questo è acid jazz!”.
James Taylor, uno dei più geniali hammondisti del creato, pur essendo onorato di venir visto alla stregua di un pioniere del movimento, ha sempre preso un poco le distanze da tale definizione, almeno per quanto riguarda la sua musica, da lui descritta in modo maggiormente accurato usando l’appellativo cop funk, ma il quartetto rimarrà legato in maniera indissolubile a questa etichetta a partire dal debutto Mission Impossible (1987), si perderà in seguito un poco per strada, rimanendo comunque eccellente nei live durante i novanta, periodo nel quale sperimenterà anche una formazione allargata, con il succedersi di svariati vocalist, novità per un complesso “strumentale”, fino a ritornare alla base nei primi anni del decennio successivo.
The Oscillator (2003), riprende il vigore dei primordi per merito di otto brani autografi, scintillanti, furoreggianti, strabordanti di B-3 organ, e con la folgorante cover di "Jesus Christ Superstar", che riaccende la passione per sigle di film e colonne sonore dei sixties e seventies, come le precedenti "Blow Up" e "Mission Impossible", e in seguito la celebre rivisitazione del tema di Starsky e Hutch.
Una rilettura magistrale, quindi, del pezzo scritto dal binomio Lloyd Webber/Rice, trasformato in una cavalcata acido-psichedelica, insaporita dal wah wah e da un assolo irrefrenabile del fratello chitarrista David Taylor, all’epoca elemento portante della band, e infarcita da un mantra di percussioni, un’abbuffata di congas e tamburelli, grazie all’esperto King of Drums Neil Robinson e allo special guest - lo sarà per tutta l’opera - Snowboy, capace di donare pure un tocco latin jazz al motivo.
"Evil Thoughts" evoca un altro grande maestro, Booker T. Jones, e d’altronde è notorio come l’autore della sempreverde "Green Onions", peraltro spesso in scaletta negli appuntamenti dal vivo del combo, sia stato un notevole punto di riferimento per il frontman britannico. "Man From The Moon" risulta instancabilmente intrigante, è come aprire la porta e trovarsi in un thriller poliziesco carico di suspense. L’organo impazza pure in tonalità basse e si respira un’atmosfera rètro à la Deodato, pianista e compositore perenne fonte di ispirazione. Meritano un discorso a parte i dieci minuti di "Bossaoscillator", una danza cangiante in una corsa verso il paradiso del ritmo, dove le melodie si prendono per la coda e il leader ci delizia anche al vibrafono; qui sono evidenziate tutte le potenzialità dei membri della band e la direzione è verso la musica brasiliana, ampliando l’orizzonte dei generi, tenendo comunque ben saldo il volante sulla ben oliata macchina del funk. Rimane molto curioso e affascinante notare quanto siano azzeccati i titoli per le canzoni che si susseguono nella raccolta. "The Obsession" e "The Exorcism" ne sono fulgido esempio. La prima è un chiaro tributo al camaleontico Brian Auger – la cui aura in realtà aleggia pure nella già citata "Man From The Moon" – e su un ossessivo tappeto di organo elettrico e un drumming da paura emerge un guitar solo da favola, il tutto alimentato dal basso ammaliante di Gary Crockett, mentre nella seconda Taylor ci purifica, espelle per quattrocentottanta secondi gli affanni del vivere presenti all’interno di noi, ci catechizza a suon di melodie mirabolanti, accarezzando i tasti come se non vi fosse un domani, con un’energia che illuminerebbe gli angoli oscuri di una chiesetta di campagna, il tutto nello spirito di Jimmy Smith.
L’importanza delle linee di basso nell’impalcatura sonora di The Oscillator è evidente nelle ultime tracce, "Jim’s Semolina" e "Big Foot", prima della piacevole conclusiva "Elle": qui veri e propri colpi di batteria adornano una sei corde pungente e il solito, ubiquo, Hammond, impossibile non amarlo…
“A dodici anni ero appassionato di Beatles e Rolling Stones, però ricevendo lezioni di piano stavo imparando J.S. Bach e altro materiale di quel genere. Lo amo ancora adesso, e adoro tuttora i Beatles e gli Stones. Ma poi ho scoperto Booker T., anche se ero già subconsciamente consapevole di tal suono, irretito dai programmi televisivi degli anni '60 e '70, pensando, «Cos'è quel “rumore” di tastiera? ». Poi mi è stato spiegato dell'organo Hammond e del “Leslie cabinet” -sistema di altoparlanti rotanti ndr-, e ne sono rimasto appassionato, ho visto allora che quella era la mia strada nella vita!”
Ne ha effettivamente percorsa tanta di strada il nostro James Taylor, leggendo le sue parole vengono in mente gli esordi, come organista nel leggendario gruppo garage punk The Prisoners ed è stupefacente, da quel momento, la linearità del proprio cammino, coerente anche nell’affrontare i vari cambiamenti al fine di rinnovarsi e lasciare un segno indelebile nel mondo della musica, perseguendo la sua ossessione per l’adorato strumento oltre ogni ragionevole dubbio. E la storia non finisce qui: collegata alla pubblicazione di album davvero notevoli - su tutti The Rochester Mass, 2015, registrato in un giorno con il coro di Rochester, probabilmente il primo caso di fusione tra funk e musica sacra - prosegue incessante l’attività live. Giusto all’inizio del 2022 il tour non ha mancato di toccare l’Italia per i tanto attesi show al Blue Note, immediatamente sold out e diventati ormai una tradizione per l’ensemble britannico, che nella sua ultima incarnazione prevede, insieme all’incontrastato leader, gli spumeggianti Andrew Mc Kinney, Patrick Illingworth e Mark Cox rispettivamente a basso, batteria e chitarra. La magia free-form jazz continua.