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REVIEWSLE RECENSIONI
05/03/2022
Esteban
Nuvola EP
"Nuvola" parla un linguaggio fatto di leggerezza e spensieratezza, intese come il recupero di una dimensione che, come insegnava Calvino, permette di muoversi all’interno di un mondo sempre più complesso e ricco di contraddizioni. Un linguaggio essenziale e consapevole, di chi per creare una canzone ha a disposizione solo quattro accordi e la sua voce. La melodia al centro di tutto. 6 Gemme di gratitudine in un oceano di lamentele.

Recensire questo EP a poche settimane dalla conclusione di Sanremo ha un che di profetico. Il Festival per eccellenza della Canzone italiana, è una manifestazione unica in Europa (e probabilmente nel mondo) di cui non riusciamo a liberarci, al punto da arrivare a riempirla con tutta quella generazione di artisti emersa negli ultimi anni e protagonista assoluta degli ascolti (sempre più distratti) dei giovani. È stata un’edizione dalla qualità forse più bassa di quella precedente (parlo delle canzoni in gara, di tutto il contorno non ho visto neppure un minuto) dominata in larga parte dal dibattito “superficialità vs profondità” o, per dirla in un altro modo, “Pop da classifica vs canzone impegnata”. Lo sanno bene tutti coloro che si sono scandalizzati per lo scarso piazzamento di Giovanni Truppi, meritevole di aver portato in gara una canzone che, rispetto alla maggior parte di quel che è stato presentato su quel palco, spiccava per sensibilità e contenuti.

Ecco, io da tutte queste discussioni mi chiamo fuori. Lo sostengo da sempre e lo ribadisco anche ora, che il discrimine tra ciò che è bello e ciò che è brutto non passa dai linguaggi utilizzati bensì da altri parametri, spesso non così scontati da individuare. E all’interno di questo discorso ce ne potrebbe stare un altro, altrettanto valido: che leggerezza e superificialità sono due concetti ben diversi, nonostante vengano talvolta sbrigativamente confusi.

Esteban Ganesh Dell’Orto è nato a Palermo ed è cresciuto a Milano, dove tutt’ora vive, studia e lavora. I nomi che porta sono tuttavia chiaro indizio della sua doppia origine, cilena e indiana. È nato nel 2000, ha frequentato il Liceo Artistico e adesso studia all’Accademia di Brera, portando avanti contemporaneamente l’attività calcistica e quella di istruttore di yoga.

In un curriculum così pieno e variegato ha incredibilmente trovato posto anche la musica ma Esteban, come da bio, si definisce semplicemente “comunicatore”, intendendo la sua attività di autore di canzoni come una semplice declinazione di un discorso molto più trasversale.

È arrivato all’esordio con Nuvola, EP di 6 pezzi pubblicato da Visory Records con distribuzione Believe Music ed è qui che acquista senso il discorso che facevo prima. Perché di fronte a questi diciotto minuti si capisce che ogni distinzione, ogni barricata ideologica che ci costruiamo imperterriti sono inevitabilmente destinate a cadere.

Nuvola parla un linguaggio fatto di leggerezza (appunto) e spensieratezza, intese come il recupero di una dimensione che, come insegnava Calvino, permette di muoversi all’interno di un mondo sempre più complesso e ricco di contraddizioni (parafraso, ovviamente, il discorso che fa lui è decisamente più complesso). Nel nostro caso abbiamo culture differenti e una pandemia che ha limitato le relazioni e ha sottoposto gli affetti al ricatto della paura. La metafora della nuvola, a questo punto, potrebbe divenire paradigma di una soluzione.

Ma come fare, concretamente? Esteban la risolve col linguaggio essenziale di chi ha a disposizione solo quattro accordi e la sua voce, per creare una canzone. Arrangiamenti in chiave minore, con le chitarre acustiche e le tastiere a muoversi lievi su una sezione ritmica che guida il pezzo senza mai essere invadente, quasi invisibile. La produzione è di Giovane Giovanni (Giovanni Triulzi) ed è straordinariamente limpida, tanto che parlare di Lo Fi sarebbe in questo caso fuorviante: le intenzioni non sono certo quelle del Pop ma c’è una dichiarazione d’intenti precisa, che non ha nulla del tono dimesso e un po’ cazzaro di certi progetti odierni.

C’è alla base la lezione del cantautorato (soprattutto De André) ma anche tanto Indie degli anni ’10, quello di Dente e del primissimo Brunori, per intenderci.

La melodia al centro di tutto, una sensazione di pacificazione e benessere anche laddove si rievocano perdite pesanti come quella della madre (l’iniziale “Nano Cilao”) o esistenze dense di patimento e sofferenza (“Christiane”). Ritornelli ariosi, dalla vitalità contagiosa e con tutti gli ingredienti per divenire tormentoni, se fossimo ancora in quella fase in cui essere “Indie” era considerato figo.

Canzoni che sono gemme di gratitudine in un oceano di lamentele, frammenti della bellezza del vivere utilissime in un mondo che questa bellezza sembra averla smarrita, che poi si declini attraverso un viaggio in Oriente (“Bandierine tibetane”) o in una poetica delle piccole cose tuttavia più luminosa di quella di gozzaniana memoria (“Sapone di Marsiglia”, “Aloe Vera”, quest’ultima che si concede addirittura una live spinta verso il rock scanzonato) poco importa.

Probabilmente la canzone italiana si sta muovendo su altri lidi, come la vittoria sanremese di Mahmood e Blanco dovrebbe lasciar intuire. Non è comunque detto che sia un male. In ogni caso, l’esordio di Esteban arriva puntuale a ricordarci che leggerezza non è superficialità e che non bisogna per forza essere estremamente complessi o intellettuali per poter scrivere canzoni profonde (una lezione che i tanti delusi da quanto sia stato snobbato Giovanni Truppi sul palco dell’Ariston dovrebbero fare propria). Che poi il successo sia garantito, soprattutto di questi tempi, è tutto un altro paio di maniche.