Quando, nel 2018, uscì Wednesday, l’album di debutto dei Just Mustard, la band originaria di Dundalk, in Irlanda, si muoveva entro i confini di riconoscibili tropi shoegaze. Niente male, a dire il vero, ma nonostante qualche deragliamento nel noise rock, il disco suonava ancora acerbo e decisamente derivativo. Sono passati cinque anni, e tanta acqua sotto i ponti, un lasso di tempo abbastanza lungo perché i Just Mustard riflettessero sul loro progetto e sviluppassero nuove idee. Così, Heart Under, secondo album della band e il primo per la Partisan Records, si colloca proprio su un altro pianeta, sia da un punto di formale che di sostanza. I cinque ragazzi irlandesi hanno avuto un’evoluzione incredibile, sono usciti dagli stretti confini entro cui si muovevano con passo sicuro, ma prevedibile, ed hanno esplorato. Laddove il debutto pagava debito alla scena che li ha preceduti, Heart Under è, invece, un viaggio coraggioso in un nuovo territorio sonoro, tanto che, etichette e confronti, oltre che meno plausibili, sarebbero anche riduttivi nei confronti di una musica davvero innovativa.
Nelle dieci canzoni in scaletta, potrete cogliere chitarre post-punk travolgenti e graffianti, estatiche ed eteree digressioni dream pop, ritmiche industrial, corrosive e ipnotiche derive post rock e claustrofobiche atmosfere trip hop. In un mix altamente suggestivo. Il segno realmente distintivo, però, è dato dalla voce angelica e dolcissima di Katie Ball, che passa a volo d'uccello su territori desolati e oscuri, su plaghe di buio che inghiottiscono ogni spiraglio di luce, sulle macerie di un’umanità post atomica, le cui uniche forme di vita comunicano attraverso vibrazioni noise, schianti industriali e letali scariche elettriche. Un disco per certi versi dicotomico, strutturato sul gioco degli opposti che si attraggono e che creano una simbiosi perfetta: in cielo, melodie celestiali, in fondo, sulla terra, un mondo di vertiginosi sprofondi.
"23" apre la scaletta, impostando perfettamente il mood che attraverserà tutto il resto del disco. Le chitarre sibilano e stridono come violoncelli scordati, la voce di Katie Ball suona dolce e minacciosa allo stesso tempo, mentre tutto intorno è fredda desolazione. La peculiarità di questa musica sta anche nel lavoro fatto in fase di mixaggio, con la voce che suona decisamente più alta di tutto il resto. La voce della Ball è la vera protagonista del disco: a volte, possiede un timbro infantile, altre volte, angelico, spesso è usata per trasmettere una malinconica sensazione di noia, che accentua le astrazioni al centro delle canzoni. In questo brano, come in tutti gli altri, le frasi vengono ripetute in modo ipnotico, ancora e ancora, e quando nel ritornello la Ball canta "Did I Know You?", la corda dell’inquietudine vibra a causa di quel timbro malignamente apatico. La natura ripetitiva dei testi è un aspetto avvincente del disco, ogni canzone si presenta come un mantra e non come vera e propria narrazione. Non ci sono storie in quanto tali su Heart Under, e le canzoni sono emotive ed espressive senza avere bisogno di essere chiaramente definite o lineari sotto la veste testuale.
"Seed" inizia con un muro di rumori aspri ed stridenti, un ritmo di batteria in stile militare e una linea di basso minimal aprono lo spazio per l'assalto delle due chitarre, cariche di effetti, di David Noonan e Mete Kalyon, che pigiano furiosamente sul tremolo per instillare una sensazione di paura. La voce di Ball brilla tra flussi e riflussi cacofonici, e la stasi a metà canzone è solo la calma prima della tempesta, prima che le chitarre scatenino un’elettricità solenne, decadente, lacerante. "Blue Chalk" mette in evidenza sia la natura sperimentale dei Just Mustard, ma anche la loro capacità di creare canzoni accattivanti che sembrano entità libere, lontane da ogni forma di progettualità elaborata a tavolino. La traccia prende vita con un suono di batteria profondo, lontano, che è totalmente in contrasto con la natura eterea e mistica della melodia. Questa sensazione di suoni come contrappunti, alla fine innegabilmente complementari, mette in evidenza una band coesa e in palla, le cui idee si combinano con effetti artistici straordinari.
In un contesto alieno e disconnesso, forse la sola "Mirror" assume connotati famigliari e si offre come tributo, sic et simpliciter, alla melodia. Ma la conclusiva "Rivers" mette nuovamente in evidenza tutto ciò che è fantastico nel disco: le linee di basso, semplici e pulsanti, di Rob Clarke, fanno da metronomo, la batteria di Shane Maguire è sepolta nelle profondità del mixer, le chitarre lacerano il velo serico della voce di Ball, e mentre senti che la canzone sta andando in una certa direzione, all’improvviso ti porta da qualche altra parte.
La grandezza di Heart Under e dei Just Mustard risiede proprio in questo, nel conoscere, cioè, le regole per scrivere canzoni e volerle sfidare a tutti i costi piuttosto che conformarsi. Il risultato è uno dei dischi più avvincenti dell’anno, che mette in riga molte delle band che si cimentano in quel genere che definiamo post punk. L’hanno capito anche gli iconici Fontaines Dc, che hanno voluto i Just Mustard ad aprire i loro concerti. Chissà, magari, un giorno, i rapporti di forza si ribalteranno. Questi ragazzi se lo meriterebbero.