I supporter dei Black Keys conoscono bene i pruriti di Dan Auerbach per affrancarsi dalla angusta scena underground del Punk/Blues, da Attack & Release - ultimo grandissimo album del duo di Akron uscito nel 2008 - in poi s’è inventato di tutto per ingraziarsi le platee ben più vaste del mainstream. Primo tentativo il side-project Blakroc, pasticcio Hip Hop in salsa Elettro/Bluesy giustamente dimenticato dai più. Poi, con l’arrivo del nuovo decennio, il successo planetario inaugurato da Brothers del 2010 prontamente bissato dall’altrettanto eclatante El Camino dell’anno successivo, due dischi venduti a milioni di copie, nei quali il DNA stilistico dei Keys ha preso a modificarsi con l’immissione di forti dosi di più accondiscendente Pop/Rock. La cesura definitiva con il sound degli esordi è rappresentata tuttavia da Turn Blue del 2014, band irriconoscibile alle prese con l’Easy Listening da filodiffusione, giudizi altalenanti tra gli evviva del pubblico generalista e lo sconcerto dei vecchi fan a cui poco importa della messa di Grammy conquistata dagli ex garagisti. Indiscusso il risultato al botteghino, anche Turn Blue conquista le vette delle classifiche di mezzo mondo e impone definitivamente Auerback e Carney nelle arene del Rock per mezzo di interminabili tour immancabilmente sold out. E’ sempre in questi anni che il bulimico Auerback, trasferitosi nel frattempo a Nashville, avvia presso i suoi studi Easy Eye Sound una sfolgorante carriera di produttore discografico in cui ha modo di assistere notissimi musicisti tra i quali Dr. John, Lana Del Rey, Nikki Lane e i Pretenders per il loro recentissimo Alone. Qui nasce inoltre il primo lavoro del progetto parallelo The Arcs con membri dei Dap-Kings e degli Expression, Yours, Dreamly, altro disco abbastanza trascurabile che denota tutte le incertezze del Nostro sulla direzione da imprimere al prosieguo della carriera.
L’attesissimo Waiting On A Song arriva dunque nel momento di maggior visibilità mediatica del cantante/chitarrista americano, si tratta del suo secondo lavoro solistico e segue di ben otto anni Keep It Did, disco perfettamente in linea con le produzioni della band madre di quel periodo e del quale si ricorda soprattutto il magnifico singolo Heartbroken, In Disrepair, pezzone Garage/Blues finito in tante colonne sonore di film e serie tv. Sono gli anni ’70 l’ossessione che muove Aurbach per questo nuovo lavoro, il Pop dei ’70, esplicitata dalla grafica di copertina rétro e consolidata scorrendo la lista delle guest (altrettanto datate): Mark Knopfler, John Prine e Duane Eddy. Dopo ripetuti ascolti perdura la sensazione di trovarci tra le mani un lavoro confuso ed incompiuto, tre/quattro episodi di accattivante Sunshine Pop, pure troppo (refrain facili facili in odor di tormentone estivo), vedi la title track, Livin’ In Sin e Shine On Me ed altrettanti in cui non si capisce bene dove il buon Dan voglia andare a parare, come quando ci si imbatte nelle fastidiose orchestrazioni di King of a One Horse Town e Undertown (avete presente le musichette dei titoli di coda di b-movie e poliziotteschi? Ecco, appunto!). Tirano su il giudizio complessivo alcuni brani anche se del tutto fuori contesto: Never in My Wildest Dreams, elegante ballata alla maniera di Elliott Smith e Cherrybomb in cui sembra di sentire il Beck di Midnite Vultures. Insomma, uno zibaldone impazzito che certifica lo stallo creativo di Auerbach, passatempo stilistico ad uso e consumo dei fautori dello zeitgeist musicale attuale secondo i quali va bene tutto e il suo contrario. Piccolo passo avanti rispetto a Turn Blue, troppi quelli all’indietro per quanti tengono ancora in gran conto i capolavori dei Black Keys degli anni zero.