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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
07/11/2017
Berlìn
Ein Geisteszustand
Era stata una visione fugace, d’estate, arrivando da quell’autostrada in cui era meglio non fermarsi che attraversava la “Germania dell’Est”. Ricordo una bibita al tavolino all’aperto di un bar lungo la Ku’damm: io e il mio amico MZ ci stupimmo: le donne non si depilavano le gambe.
di Stefano Galli steg-speakerscorner.blogspot.com

Uno stato mentale diverso dall’usuale. Uno stato mentale urbano.

Più di uno stato mentale urbano: quanti se ne possono avere? Dipende, io sono una persona da città, ne conto due molto forti di stati mentali urbani e qualcun altro meno intenso, comunque sempre certo e indelebile.

La canzone di Billy Joel – di cui rileva il titolo e non il contenuto – si intitola “New York State Of Mind” (reperibile anche in qualche sua antologia, apparve nell’album Turnstiles, che significa “tornelli”: quelli della metropolitana). Ma qui provo a scrivere di Berlino, meno distante di Gotham City, ma con altri ostacoli, a partire da quello linguistico che – per la nostra notoria incapacità di percepire le differenze non evidenti – induce a minor sforzo e a fare un unicum di tutta la Germania, mentre Berlino, con il resto della Germania, non c’entra più molto da più o meno 70 anni.

Fine della premessa[1] a questo enorme schizzo.

L’accenti va sulla lettera “i”: non è un dettaglio.

Credo che David Bowie non sia comprensibile appieno a chi non ama Berlin. Ci sarebbe da domandarsi – non mi risulta qualcuno se lo sia domandato – se Berlin o già “Berlin”[2] di Lou Reed abbiano influenzato Bowie per lo meno nella sua scelta di trasferirsi in questa capitale.

Non limitatevi al dato cronologico, per favore, e, per assurdo, nemmeno a quello geografico: in una intervista del 2006 Reed dichiara di non essere mai stato nella capitale tedesca. Senza, evidentemente, dimenticare Iggy Pop, come si vedrà.

(Incidentalmente: Ian “Curtis’s obsession with Germany – according to his wife Deborah, their wedding fetured a hymn sung to the tune of the German national anthem [più che verosimilmente si tratta di “Das Lied der Deutschen”, che quasi tutti sono soliti ricordare con l’incipit “Deutschland über alles”, NdA] – stemmed partly from the Berlin chic of his glam heroes, Reed, Pop and Bowie” scrive Simon Reynolds nel suo libro Rip It Up and Start Again-Postpunk 1978-1984 (pag. 183). La paternità dell’espressione post-punk è peraltro solitamente attribuita a Jon Savage al tempo in cui scriveva per il settimanale musicale Sounds e si fa risalire già alla fine dell’anno 1977).

Devo anche precisare che chi arriva per la prima volta a Berlin (di nuovo mi raccomando la “i”) oggi, non ha modo di capire molto della sua storia recente: i cambiamenti si notano solo conoscendo il prima che non esiste più.

Anche perché Berlin è come Düsseldorf (o viceversa), cioè due città poco considerate[3] se non dai proto-punk e dai primi “eroi” (cfr. clothes for heroes).

Chi, nel 1972, andò a leggersi Christopher Isherwood dopo aver visto al cinema Cabaret di Bob Fosse?

Chi, nel 1977, visitò la città natale dei Kraftwerk dopo il successo di “Trans Europa Express”?[4]

Nel 1986 le barriere nella stazione di metropolitana dello Zoo mi parevano come le paratie per tori e cavalli selvaggi nei rodeo.

Era stata una visione fugace, d’estate, arrivando da quell’autostrada in cui era meglio non fermarsi che attraversava la “Germania dell’Est”. Ricordo una bibita al tavolino all’aperto di un bar lungo la Ku’damm: io e il mio amico MZ ci stupimmo: le donne non si depilavano le gambe.

Quando per le mie vacanze natalizie scelsi Miami Beach fui trattato (senza scomodare l’oceano d’inverno) come un eccentrico o peggio: era il 1987. Qualche anno dopo non ebbi maggiori consensi per le mie visite invernali alla non più squartata Metropolis[5].

Molto fango nella Ebertsraße, fra la Brandenburger Tor e Potsdamer Platz[6], e poi tutti quei grovigli di tubi, spesso dipinti di rosa, sopraelevati, che servivano, e servono, per pompare l’acqua, dato che la città ha una falda molto vicina alla superficie, ogniqualvolta si costruiscono gli edifici.

Però con Berlin occorre prima o poi fare i conti, nella propria vita. Oppure non li si fa, come non li si fa con New York City[7], e un certo giorno è troppo tardi. Se non li avessi fatti non scriverei; o non potrei scrivere, non essendo io un artista, queste righe.

L’ordinata – nelle procedure – capitale ha una doppia rete di metropolitana, ma i convogli si confondono nelle tratte in cui la U-Bahn è sopraelevata come la S-Bahn. No, non sto scrivendo una breve guida alla città, il fatto è che l’Atene della Spree ha la rara caratteristica di avere tratte gradevoli (o intellettualmente interessanti) anche quando si viaggia in vagoni, come testimonia “The Passenger” di Iggy Pop.

Un vantaggio della città è che non soffre di quella triste patologia che sono gli anni Sessanta: Parigi e Londra, che non sono cambiate molto se non in peggio[8] nei loro centri extra-finanziari (scelte diverse: La Défense tutta fuori, mentre i grattacieli gomito a gomito con la vecchia City) subiscono ancora gli ultimi postumi, rispettivamente, di sessantottismo e di swingite.

Qui quel decennio è forse quello meno gradito del secondo dopoguerra.

Oggi il Muro (“die Mauer”[9]) per la massa è poco più che un ruvido pseudo-monumento turistico da portarsi a casa: si vendono ancora “pezzetti di muro”[10] e vedere quelli che li comprano ora mi fa l’impressione di vedere coloro che compravano gli LP postumi di Jimi Hendrix autografati dal deceduto.

Ma vi assicuro che un poco lo si percepisce ancora, in certe zone.

Il punto della città che preferisco? Di fianco al severo e vigile Adlerkopf del vecchio Berlin Tempelhof.

E la musica? Beh, evidentemente un poco di confusione esiste, per lo meno in quanto la scena punk e successive derivate occidentali e quelle omologhe orientali erano, appunto, separate.

Poi c’è “tutta la scena techno” che si può riassumere, volendo, nella parola Tresor e che in qualche modo è – fra il 1991 e il 2005 – un “ballare in faccia all’avversità”[11] passata (e ormai definitivamente (?) conclusa) e all’incerto futuro.

Come è capitato per altri post, credo necessitino degli “apparati”, ovviamente soggettivi.

Chi conosce almeno elementarmente la lingua tedesca, in queste righe può solamente trovare un altro punto di vista e, quindi, le indicazioni che fornisco sono – di nuovo – al più alternative.

Con tre precisazioni preliminari:

  • Trabant significa satellite;
  • U2 è per me sempre e solo la linea 2 (rossa) della metropolitana sotterranea (U, appunto);
  • nonostante tutto, non sono ancora riuscito a vedere (pur disponendo anche dell’edizione Criterion) Der Himmel über Berlin di Wim Wenders.

Partendo dalla letteratura, per chi ha velleità trascendenti ciò che ho scritto, l’inizio può essere il volume, oltre mille pagine, di Alexandra Richie, Faust’s Metropolis – A History of Berlin[12]. Altri libri possono essere il pre-9 novembre 1989 Der Mauerspringer (edizione in inglese intitolata The Wall Jumper) di Peter Schneider. Sempre con la stessa divisa e solo parzialmente ambientato ivi, The Boy Who Followed Ripley di Patricia Highsmith[13]. Ricordo anche The Innocent di Ian McEwan.

Un’antologia intelligente, che combina cronaca e narrativa sulla sera cruciale, è Die Nacht, in die der Mauer fiel (tradotto in Italiano con il titolo identico de La notte in cui cadde il muro), curata da Renatus Deckert, dove ancora una volta si precisa a più riprese che il muro non cadde fisicamente.

Per chi legge almeno il Francese, esiste un numero monografico (il 625) della rivista letteraria Les Temps modernes dal titolo Berlin mémoires. Sempre d’oltralpe è l’opera narrativa di Oscar Coop-Phane Berlin demain.

Quanto alla musica tutto si fa più complicato, per una ragione banale: musica delle rive della Spree non significa musica di suoi nativi. Inoltre, esistono delle ripetizioni.

Una ritenuta fondamentale (ma rara) antologia in CD è Als die Partisanen kamen. Forse più semplice è trovare Berlin 61-89 Wall Of Sound (un doppio CD). Depurando da tutto il “non locale” (ma non ha senso in quanto si tratta di un lavoro fondamentale) si veda un altro doppio compact: Verschwende deine Jugend. Non semplice da reperire il CD più DVD Berlin Super 80. Per “adiacenza concettuale” indico anche il libro Berlin Sampler di Théo Lessour che analizza una serie di opere musicali “berlinesi”.

Passando ai singoli artisti, fra i tedeschi sono da citare per lo meno Nico[14], Malaria!, Einstürzende Neubauten, i parzialmente berlinesi Liaisons Dangereuses.

Rispetto a tutta la scena del Tresor, a parte le molte compilation realizzate dal locale medesimo, necessario e sufficiente è il già citato documentario Sub Berlin – The Story of Tresor che oltre al DVD consta anche di un CD.

Quanto agli stranieri, per David Bowie sono essenziali i “soliti” tre album: Low, “Heroes”, Lodger e la canzone “Station To Station”[15], mentre per Iggy Pop The Idiot e Lust For Life. Provocatorio il Rock Around The Bunker di Serge Gainsbourg.

La distanza fra le influenze di una sola parola è udibile in Live in Pankow dei CCCP rispetto a Florence In Silence dei Pankow.

Per il cinema, a fianco di Metropolis cito espressamente soltanto One, Two, Three di Billy Wilder, Good Bye Lenin! e il recente Oh Boy.

Aggiungo un bonus: non mi risulta che sia disponibile ufficialmente, e su You Tube è diviso in 5 parti. Si tratta di David Bowie An Earthling At 50: andate alla “part 3” (https://www.youtube.com/watch?v=oXOnANBUT2o), intorno a 1’45” per un paio di minuti importanti.

In conclusione, non solo “Where Are We Now?”, ma anche e sempre where are YOU now?

[1] La mia narrativa soffre di tanti e tali difetti che siamo al non pubblicabile, se non fosse che il prezzo dell’inedito mi sembra troppo alto sia per l’autore, sia per i lettori.

[2] La canzone fa parte del primo album solista, eponimo, di Reed (1972), mentre il long playing dal medesimo titolo è dell’anno successivo: sebbene fra loro stia Transformer (prodotto da Bowie), va considerato come la canzone sia anche l’ispirazione dell’album cui dà il titolo e che “apre”.

[3] La Germania tende ad essere poco considerata, ed anche un poco insultata quando non si sanno distinguere i tipi di birra o di wurst.

[4] Dalla stessa città arrivano anche Neu!, Deutsch Amerikanische Freundschaft, Die Krupps, …

[5] Perché se NYC è Gotham City, è altrettanto chiaro che Fritz Lang è fedele alla madrepatria quando immagina il suo Meisterwerk.

[6] Qualche immagine (talvolta accelerata) dello stato della presto nuovamente capitale della riunita nazione tedesca si rinviene nel documentario SubBerlin – The Story of Tresor.

[7] Questa è una prospettiva più oggettiva di quella in premessa.

[8] Ho un’età per cui posso rimpiangere “il” Drugstore (nome corretto drugstore Publicis) che guardava sulla piazza a Saint-Germain-des-Prés a qualche passo dalla Brasserie Lipp.

[9] Muro è sostantivo di genere femminile in Tedesco. Lo è anche Brücke: per chi si voglia sforzare e andare a vedere il museo.

[10] Un piccolissimo frammento è contenuto nel cofanetto Tesori della patria dei Disciplinatha. Io ne ho anche due frammenti avvolti in carta stagnola come fossero caramelle: l’idea di un giornalista italiano che “era là” quando fu abbattuto il muro – curioso, tutti parlano di “caduta” come se fosse crollato per eventi naturali – e li regalò a una sua festa quando tornò (non partecipai, me li portarono).

[11] Si tratta del titolo di uno dei due CD che costituiscono una fondamentale antologia della newyorkese ZE Records.

[12] Di cui esiste anche l’edizione italiana: Berlino, storia di una metropoli.

[13] Fa parte della “saga” di Tom Ripley la quale, fra l’altro, è caratterizzata da una discreta ambiguità sessuale molto “berlinese”. Il titolo italiano del libro è eccessivo: Il ragazzo di Tom Ripley.

[14] Oltre alla sua versione di “Das Lied der Deutschen”, si vedano tutte le sue canzoni cantate nella madrelingua contenute nel doppio CD The Frozen Borderline – 1968-1970.

[15] In qualche modo “compilati” nella colonna sonora del film Christiane F. – Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, tratto dall’omonimo libro di Christiane Vera Felscherinov, con l’aggiunta anche di “Stay” e “TVC15” tratte dall’album Station to Station e una versione bilingue del simbolo “Heroes”-“Helden”.