In questi anni di progetti, collaborazioni e tour come session musician (prima con Colapesce/Dimartino poi con Andrea Poggio) dare un seguito a Two, Geography, uscito quasi sei anni fa, non è mai sembrata una priorità, eppure, in qualche modo misterioso, sapevamo che sarebbe arrivato.
Adele Altro possiede ormai una dimensione musicale a tutto tondo, è gradualmente divenuta una figura imprescindibile nella scena indipendente di casa nostra, con le ultime uscite, da Tentativo a Io cerco per sempre un bivio sicuro (uscito a nome Marco Giudici, ma lei vi ha avuto un ruolo non da poco) che ne hanno accentuato la poliedricità.
Stillness, Stop: You Have a Right to Remember è un titolo ingarbugliato, probabilmente proibitivo per noi italiani che l’inglese, salvo eccezioni, lo mastichiamo poco, ma riflette quello che è stato l’itinerario di sviluppo e consapevolezza di sé che Adele ha vissuto in questi anni. Liberarsi dai condizionamenti, dalle pressioni, dalle inutili aspettative, per concentrarsi sul presente, sulla dimensione semplice della vita, e sulla propria voglia di fare musica.
Se Silent. Quietly. Going Away si muoveva su un Indie Folk più che buono ma ancora sostanzialmente acerbo, Two, Geography ha rappresentato un passo avanti notevole, trovando una strada personale e lucidissima all’interno della galassia del rock alternativo, senza scimmiottare nessuno e con la bravura nel creare ogni volta canzoni dall’altissimo livello qualitativo.
Il terzo atto targato Any Other continua su questa falsariga, nonostante gli anni di intermezzo. C’è il cantautorato femminile di scuola americana (da Phoebe Bridgers a Sharon Van Etten) ma anche le suggestioni slacker di Pavement e Courtney Barnett, il tutto condito da un approccio esecutivo che sconfina spesso nel Jazz e affini (si veda a titolo di esempio la conclusiva “Indistinct Chatter”, nata quasi come uno scherzo ma significativa nel presentare un gruppo rodato che si diverte a tirare fuori sensazioni dai propri strumenti.
Parlare di influenze lascia un po’ il tempo che trova perché, se c’è un dato da evidenziare in questo nuovo disco degli Any Other, è proprio l’identità ben precisa che manifesta, ancora più definita rispetto al precedente lavoro, al punto da provocare tutti quei discorsi fastidiosi e ormai francamente superflui, del tipo: “Eh ma se fossero americani…”. Vero finché si vuole, per carità; ma forse sarebbe più giusto ricordare che il motivo per cui spesso e volentieri sembriamo un paese di serie C, musicalmente parlando, è soprattutto perché (sarà anche brutto dirlo ma pazienza) i nostri artisti non sono sempre all’altezza della concorrenza internazionale. Quando c’è qualcuno che spicca è inutile fare troppi discorsi, la qualità della musica parla da sola.
Adele è qui riuscita a scrivere canzoni che vanno dritte al punto, ammantate di una leggerezza che sembra quasi fuori posto, se pensiamo al periodo che le ha precedute, e che appare dunque come un’autentica riconquista. C’è stato forse anche un grande lavoro sulla voce, perché non l’abbiamo mai trovata così espressiva, così a fuoco e così urgente nel comunicare il proprio vissuto; e c’è poi il solito lavoro eccezionale di Marco Giudici, che ha prodotto il disco con la stessa Adele e ci ha suonato sopra, uso sopraffino dei Synth e cura pazzesca della dinamica, un sapiente dosaggio di pieni e vuoti che poi è ciò che rende così affascinanti questi otto episodi.
Piano elettrico e acustico (Giulio Stermieri), chitarre, violino, sassofono, una batteria leggera (Giacomo Ferrari), elettronica mai invadente e funzionale al paesaggio sonoro, sono gli ingredienti di un disco ottimamente scritto, arrangiato e suonato, che aspettavamo davvero da troppo tempo.