Avrebbe potuto campare di rendita titillando la nostalgia dei fan dei Led Zeppelin, tesaurizzando la leggenda di una band la cui vita è stata troppo breve. Con buona probabilità ci ritroveremmo con una macchietta in più, ancora di lustrini agghindata, e qualche ottimo disco in meno. Per sua e nostra fortuna, Robert Plant, da gran signore qual è, in quasi quarant'anni di carriera solista ha tracciato un percorso che - pur senza spezzare quel cordone ombelicale che lega il suo nome e la sua musica alle gesta del suo vecchio gruppo - si è rivelato quanto mai personale e coerente. Spirito inquieto e curioso, nei suoi precedenti dieci album (non tutti, occorre riconoscerlo, perfettamente a fuoco) Plant ha esplorato i più disparati territori sonori, con una spiccata predilezione per il folk in tutte le sue sfaccettature. Un viaggio musicale che, come testimonia il nuovo "Carry Fire", ancora non si è esaurito; alla soglia dei settant'anni, Robert appare tutt'altro che acquietato e con le sue nuove canzoni continua ad accompagnarci da un angolo all'altro del globo terracqueo, dal nordafrica al Galles, passando per l'estremo oriente e gli Stati Uniti. Nelle undici tracce del disco si fondono elegantemente folk, blues, etnica ed improvvisi bagliori elettronici mai troppo invadenti; non mancano momenti più rock, non distanti da certe atmosfere zeppeliniane che, paradossalmente, appaiono tra i più deboli dell'album, come nel caso della pur piacevole New World. "Carry Fire" risulta solido, privo di fronzoli e virtuosismi, a partire dalla voce di Plant che, non potendo più raggiungere i picchi di un tempo, con l'avanzare dell'età si sta facendo sempre più calda e riflessiva, tutto sommato più confacente al tessuto sonoro proposto dall'artista e la sua band. "Mi sento come un marinaio che ha vissuto tante avventure", ha dichiarato Robert in una recente intervista. Il momento di riportare la nave in porto, a quanto pare, non è ancora giunto.