Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
03/06/2024
King Hannah
Big Swimmer
I King Hannah con "Big Swimmer" hanno trovato la loro piena cifra stilistica e la loro più alta espressione: fanno tutto ciò per cui li abbiamo amati ma meglio, con più affiatamento, con una voce che tocca profondità inaudite, con chitarre più immediate, con aperture melodiche inedite. Un disco fatto di storie, tutto da assaporare.

Niente di più bello che vedere una band crescere e trovare, passo dopo passo, sempre più consapevolezza nei propri mezzi; soprattutto in un’epoca come la nostra, dove neppure alle più grandi star planetarie è più assicurata una certa continuità di risultati.

Hannah Merrick e Craig Whittle si sono incontrati in un bar di Liverpool: lei lavorava lì, lui aveva già un progetto musicale. Quel che è successo dopo lo sappiamo ed è stato raccontato soprattutto dai loro primi due lavori, l’EP Tell Me Your Mind and I’ll Tell Yours, che ci ha folgorato in piena pandemia, ed il full length I’m Not Sorry, I Was Just Being Me, che ha confermato e ulteriormente sviluppato quanto di buono c’era già in quelle primissime composizioni.

 

Big Swimmer arriva ad inaugurare l’estate e promette di finire tra i dischi dell’anno di molti, tra ascoltatori e addetti ai lavori. C’è un titolo breve, finalmente, e una copertina che ancora una volta ritrae Hannah da sola, appena riemersa dall’acqua, in continuità totale con la metafora evocata dal titolo stesso; il quale indica quanto farti e determinati si debba essere per superare le avversità che ci vengono incontro nella vita, anche se poi a ben guardare, questo è un disco fatto di storie, piuttosto che di sguardo introspettivo come i precedenti.

Nel frattempo c’è stato un tour americano, il primo della loro storia, ed è forte la tentazione di leggere queste canzoni come un lungo diario di bordo, pieno di istantanee da luoghi della più anonima periferia (una zona residenziale nei pressi di Philadelphia, un distributore automatico in Texas) ma anche in una New York ridotta a non-luogo demistificato, con la scrittura di Hannah che si scarnifica di proposito, quasi a voler riprendere la lezione di Raymond Carver e Sam Shepard.

 

Lo hanno registrato a Bristol, nello studio di Ali Chant, un nome importante che li ha messi tutti in una stanza e li ha fatti suonare come se fossero sul palco, la dimensione che, chiunque li abbia visti anche solo mezza volta, sa essere in assoluto quella che ne valorizza meglio le capacità.

Il risultato è che i quattro suonano anche su disco come una vera band, con Del Paxton e Jake Lipiec non più ridotti al rango di semplici turnisti, ma brillantissimi nel fornire una sezione ritmica che non solo accompagna gli svolazzi dei due protagonisti (che rimangono tali, fosse anche per il fatto che sono loro a scrivere i pezzi) ma plasma più volte l’intrinseca natura dei brani.

E qui si annida la vera magia del gruppo, ovvero portare avanti un repertorio perfettamente in bilico tra Indie e Classic Rock, mai troppo moderno nella declinazione (loro stessi dicono che la cosa più recente che ascoltano sono i Built to Spill) ma neanche intriso di nostalgia, e attraverso questo conquistarsi i favori allo stesso modo degli ascoltatori più giovani e dei boomer.

C’è tanta chitarra, in questo disco, ma non quella abrasiva a cui ci ha abituato la nuova ondata di Post Punk; Craig Whittle a questo giro abbraccia il Folk (sentire come inizia la title track, per farsi un’idea) ma continua a dare il meglio di sé nelle lunghe code strumentali che caratterizzano i loro brani più epici e che qui raggiungono il loro apice espressivo: “Suddenly, Your Hand” (che inizia come una ballata romantica ma in realtà parla di un serial killer) e “Somewhere Near El Paso” (lenta e fumosa, a tratti cantilenante, perfetta realizzazione musicale dello scenario descritto nel testo) sono le dirette eredi di “Crème Brûlée”, con fughe chitarristiche che sono un po’ i Crazy Horse e un po’ dei Sonic Youth meno arrembanti e rumorosi, il tutto con una perizia esecutiva ed una capacità espressiva che rischia seriamente di consacrare Whittle tra i più grandi chitarristi della sua generazione.

 

La cifra stilistica di Big Swimmer, alla fin fine, è piuttosto semplice: il gruppo fa le stesse identiche cose di prima ma le fa meglio, con un maggiore affiatamento, come già detto, e con Hannah Merrick che sembra aver trovato la chiave di volta della propria voce, e che canta a livelli di profondità inauditi (valgano come indicazioni la title track, ma soprattutto la triste serenata di “This Wasn’t Intentional”) ma si diverte anche a cimentarsi in uno spoken word indolente che sembra figlio della migliore Florence Shaw (“New York, Let’s Do Nothing”, “Milk Boy (“I Love You”), che presenta anche un gran bel lavoro di alternanza tra pieni e vuoti). Non male per una che cinque anni fa pensava a tutto tranne che ad intraprendere la carriera musicale.

Ci sono anche cose più distorte e rockeggianti, quasi up tempo, come “Davey Says”  e “Lily Pad” (quest’ultima decisamente anni ’90), che costituiscono la quota di maggiore immediatezza, all’interno di un disco che comunque più dei precedenti punta sulle aperture melodiche.

Deliziosa la chiusura con “John Prine on the Radio”, un brano quasi Country, che può sorprendere ad un primo ascolto ma che poi, a risentirlo nel contesto, ci si rende conto essere la perfetta rappresentazione della loro idea di musica: suonare tra amici, in pace e serenità, quelle canzoni semplici che ci parlano e sempre ci parleranno delle cose più vere dell’esistenza.

 

I King Hannah con questa loro terza uscita hanno trovato il modo di rendere il vecchio contemporaneo, e lo hanno fatto talmente bene che quasi ci si dimentica che in due di questi pezzi (“Big Swimmer” e “This Wasn’t Intentional”) è presente Sharon Van Etten, che del gruppo è stata una delle prime e più convinte supporter. Le hanno chiesto di partecipare e si è limitata a fare le seconde voci, come se relegarsi nelle retrovie, fosse il modo migliore per rendere omaggio alla grandezza di questo disco.