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REVIEWSLE RECENSIONI
05/12/2017
Neil Young & The Promise Of The Real
The Visitor
In definitiva, The Visitor è un disco di cui avremmo tranquillamente fatto a meno: risaputo, cosa che non è necessariamente un male, ma anche poco ispirato, sfilacciato, e un filo verboso.

Lo dico con affetto: penso che il buon vecchio zio Neil ultimamente sia un po’ confuso. È come se si rendesse conto che il tempo passa inesorabile e che la sabbia nella sua clessidra stia lentamente esaurendosi. Così, preso da una foga ipercreativa, fa e disfa, e butta sul fuoco tanta carne, spesso non adeguatamente marinata. Le idee e la passione non mancano certo: la militanza indomita contro le politiche estere americane e le grandi multinazionali, il progetto di Pono Music per garantire agli ascoltatori una musica di alta qualità (come se a questo mondo ancora interessasse a qualcuno ascoltare dei dischi come Dio comanda), il suo supporto fattivo all’iniziativa Bridge School Benefit, la scelta recentissima di rendere accessibile in streaming la propria ponderosa discografia e il cambio della backing band (i Promise Of The Real di Lukas Nelson al posto dei leggendari Crazy Horse).

Neil non smette mai di stupire, ma è come se fosse sopraffatto dall’urgenza di realizzare tutto quello che gli passa in mente prima di non avere più il tempo per farlo. È inevitabile, allora, che la qualità ceda il passo a una quantità non sempre centrata, sia nella forma che nei contenuti. Succede, allora, che negli ultimi cinque anni si sia passati da un grande disco come Psychedelic Pills (2012) a progetti un filo demenziali come A Letter Home (2014), da album dignitosi come The Monsanto Years (2015) e Peace Trail (2016) a prescindibili recuperi di vecchio materiale (Hitchhiker, uscito pochi mesi fa). Questo nuovo The Visitor, ancora in compagnia dei Promise Of The Real, non fa altro che confermare quanto appena detto, perché racchiude tutto il “Neil Young pensiero”, dalla cavalcata elettrica alla ballata acustica, e qualche tentativo di spiazzare i fans con azzardi che si scostano da quel suono che da decenni è un marchio di fabbrica.

Il risultato, però, appare poco coeso e ancor meno ispirato. La classicissima Already Great (scritta in risposta allo slogan trumpiano “Make America Great Again”), pur apprezzabile nei suoi intenti politici, manca di vero mordente (inutile girarci intorno: i Crazy Horse sono tutta un’altra cosa). Suona decisamente meglio Stand Tall, chitarre lancia in resta e distorsore a palla, ma si tratta comunque di un brano che abbiamo ascoltato già centinaia di volte.

Nessuna sorpresa anche con episodi acustici come Almost Always, impreziosita da un bel suono di armonica e, direi, la migliore del lotto, o come Change Of Heart, dignitosissimo country, a cui un arrangiamento migliore avrebbe dato maggior lustro. Escono, invece, dal consueto gli otto minuti e mezzo di Carnival, le cui sonorità latine conducono inevitabilmente tra le braccia di Santana, e il bluesaccio in chiave stonesiana di Diggin’ A Hole.  Due brani, questi, senza infamia e senza lode. Children Of Destiny, invece, è un pezzo terrificante, costruito su un arrangiamento orchestrale obbrobrioso, a metà fra canzone di Natale e velleità da musical. E sono poco più che accettabili anche la successiva, caracollante, When Bad Got Good, che puzza di filler a chilometri di distanza, e il pippone acustico di dieci minuti di Forever, che forse avrebbe potuto avere un senso, se abbondantemente sforbiciata nella durata.

In definitiva, The Visitor è un disco di cui avremmo tranquillamente fatto a meno: risaputo, cosa che non è necessariamente un male, ma anche poco ispirato, sfilacciato, e un filo verboso. Proprio come il suo autore, di cui è comprensibile la senescente prolificità, ma al quale, forse, gioverebbe un tranquillo periodo di riflessione.