Strano destino quello dei Fall: li trovi citati ovunque, che si discuta delle influenze di una band nata dopo il 1979 o che si parli di ciò che accadeva in Gran Bretagna dopo la fine del Punk o, semplicemente, che si parli di musicisti fondamentali di una qualsiasi scena alternativa. Te li trovi sempre tra i piedi, Mark E. Smith e i suoi (innumerevoli) compagni d’avventura. Eppure, per un motivo o per l’altro, sono e rimarranno sempre un nome per addetti ai lavori. Non li conosce nessuno, tra quelli che consumano musica in modo molto meno che bulimico. È ovvio, dai: le magliette di “Unknown Pleasures” sono più diffuse di quelle di Che Guevara, Morrissey è un personaggio da tabloid, i New Order scrivono l’inno della nazionale di calcio inglese (ok, è successo trent’anni fa ma non è che oggi siano meno esposti mediaticamente). E i Fall? Chi se li caga i Fall? Eppure non è che siano stati meno importanti per il definirsi di una scena, non è che Smith sia stato meno personaggio di Curtis. All’epoca si incrociavano pure tutti i giorni, mentre si recavano ai rispettivi lavori, anche se pare non se ne siano mai accorti. Tra i due gruppi non corse mai buon sangue ma a Manchester erano comunque due stelle di prima grandezza.
Oltretutto, ed è una cosa che è accaduta quasi solo a loro, i Fall non si sono mai sciolti: non hanno avuto una storia breve, intensa, fugace, non sono passati attraverso beghe giudiziarie tra ex membri, si sono pure risparmiati la pantomima sentimentale della reunion. Hanno semplicemente continuato a fare dischi: uno dopo l’altro, con la line up attraversata da un incessante mutamento (nati di fatto come collettivo affiatato, già dopo un paio d’anni nessuno dei membri originali è più riuscito a sopportare le bizze del frontman) e il solo Smith come punto fermo, sempre più padre e padrone di un progetto che pure all’inizio aveva diviso con i suoi sodali. L’ultimo disco è uscito quest’anno e, a ben vedere, non c'è molta differenza con quanto fatto prima, semmai un maggior mestiere e una definitiva padronanza dei propri mezzi.
Dunque che cosa è successo ai Fall? Perché sono rimasti “semplicemente” un gruppo storicamente fondamentale? Ci sono tutta una serie di ragioni che potrebbero essere tirate in ballo ma forse la cosa migliore per scoprirlo è andarsi a comprare questo cofanetto della Cherry Red.
L’etichetta britannica ha attualmente il gruppo sotto contratto ma è da sempre in prima fila sul mercato delle ristampe. In questi giorni è uscito anche “The Outside of Everything”, ennesima (la terza quest'anno) retrospettiva filologicamente curatissima riguardante un genere musicale; questa volta tocca al cosiddetto Post Punk ed è superfluo dire che anche i nostri amati Fall sono della partita.
Ma torniamo a noi: quella che teniamo tra le mani è una raccolta di tutti i singoli realizzati dai mancuniani dal 1978 al 2016 ed esce in due versioni differenti. La prima, per completisti, nerd e masochisti vari, comprende anche tutte le bside e si articola lungo sette cd; la seconda, per tutti gli appassionati di musica ancora in possesso di un rapporto equilibrato con la realtà, si limita ai soli “Lati A” ed è presentata in una ben più sobria confezione tripla.
Ecco, diciamo che se volete capire perché ad un certo punto un gruppo di intellettualoidi dalle letture compulsive (il nome della band deriva dal romanzo “La caduta” di Albert Camus ed è probabilmente il monicker più colto di tutta la storia del rock), con idee vicine all’estrema sinistra e con una passione piuttosto viva per le anfetamine, abbia deciso di mettersi a suonare “della musica grezza con sopra una voce davvero strana” (sono parole dello stesso Smith), potrebbe trovare in questa raccolta motivi sufficienti a soddisfare la sua curiosità.
Tralasciamo la versione da sette cd, che è oggettivamente troppo e che contiene anche tanto materiale trascurabile e concentriamoci su quella base: essa costituisce il modo migliore per orientarsi all’interno di una discografia vasta e spesso ostica, al limite del delirante, mettendoci davanti a quello che è forse il suo lato più presentabile. Il problema dei Fall, a ben guardare, sta tutto qui. Che non è un problema vero e proprio in realtà ma è solo relativo alla ragione per cui un certo successo commerciale è stato sempre precluso loro.
Fanno un rock lineare e sgraziato, primitivo, con una voce sgradevole e al limite del parlato, con testi deliranti a partire dagli stessi titoli e sono quanto di più lontanamente “musicale” potesse esserci all’epoca. Che poi va benissimo perché tante delle band che invasero il mercato in quel periodo erano così, feroci sperimentatori d’avanguardia che se la ridevano delle convenzioni. Ma non pretendiamo poi che, sparita la sbornia, tutto questo venga anche solo sfiorato tangenzialmente dalla cosiddetta cultura popolare!
I Fall costituivano, nella loro profonda essenza, nella loro selvaggia impronta sonora, un modo radicale, iconoclasta di desacralizzare il rock degli anni ’60 trasformandolo con sguardo morboso e ossessionato in una rassegna ironica e allucinata di una classe media disperata, di una Manchester rovinata in quegli anni da un piano urbanistico scellerato, sorta di rifugio oscuro per anime in pena.
Non ci sono tutti i pezzi più importanti e rappresentativi (perché alcuni non uscirono come singoli) ma ce n’è abbastanza per farsi risucchiare e non uscirne più: dal primissimo “Bingo Master’s Break Out”, sull’alienazione senza speranza delle sale da gioco, a “Mr. Pharmacist”, manifesto irriverente sulle droghe, legali o illegali che fossero (è importante ricordare che quelli erano gli anni degli psicofarmaci e degli anti depressivi prescritti per ogni minima ragione), passando per i classici “Totally Wired”, “C.R.E.E.P”, “How I Wrote Elastic Man”, si capisce perfettamente che cosa il gruppo intendesse quando parlava delle “Tre R”: ripetizione ripetizione ripetizione (da un altro grande classico come “Repetition”, non incluso nella raccolta). Che è poi, a voler fare un discorso generale, una delle regole costanti del Post Punk e della New Wave.
Ma sarebbe sbagliato fermarsi solo ai brani più famosi: perché in questa sorta di “Coronation Street in acido[1]”, per usare un’altra celebre definizione della loro musica, compaiono anche versioni intense e straordinariamente riuscite di classici come “Victoria” dei Kinks o “I Can Hear The Grass Grow” dei The Move, giusto a dimostrare che, quando vogliono, anche loro sanno attingere alla tradizione con rispetto e senza snaturarla.
E se anche non ci limitassimo ai primi due dischi, che fotografano il periodo più conosciuto del gruppo ma volessimo andare ad esplorare anche quello dedicato alla produzione più recente, ci renderemmo conto che anche negli ultimi anni i nostri hanno saputo fare cose egregie: valga su tutte la meravigliosa “Masquerade” o la folle “Theme from Sparta F.C. #2”, dove Smith ha avuto la brillante idea di mettersi dalla prospettiva di un tifoso greco di calcio (?!) che canta l’inno della sua squadra del cuore.
Per chi ha già dimestichezza col repertorio del gruppo, questo rimane comunque un ottimo acquisto: la confezione è semplice ma elegante, con un ricco booklet contenente una piccola scheda per ogni singolo, con tanto di riproduzione della copertina originale e dettagliate note tecniche. Purtroppo è assente qualunque apparato critico-biografico relativo alla band e questo è un bel difetto perché i tipi della Cherry Red sono sempre stati molto attenti da questo punto di vista.
Per i neofiti, si tratta di un viaggio di tre ore a cui sarà difficile sottrarsi. Per dirla con Simon Reynolds, che ha sviscerato la loro musica con grande precisione: “Lo sguardo fulminante di Smith, spietato con la sua gente quanto con chiunque altro, passava al setaccio l'intera società, trovando solo segni grotteschi.”.
Non saranno “trendy” come gli Smiths o i Joy Division ma non si potrà dire di amare veramente quest’epoca storica se non ci si confronta prima con loro. Procurarsi questo cofanetto potrebbe essere il modo migliore per iniziare.
[1] Tra l’altro è interessante notare come volontariamente il primo, inconsciamente il secondo, e oltretutto in modi radicalmente diversi, sia Morrissey che Mark E. Smith, entrambi protagonisti della scena musicale mancuniana, abbiano attinto alla più celebre Soap Opera britannica del tempo, per dare corpo alla loro personale commedia umana.