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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
22/04/2018
Esserci o non esserci
(Questo è il problema: come contrastare il principio d'indeterminazione)
Un ragazzo ho mandato alla camera a gas di Huntsville. Uno e uno soltanto. Su mio arresto e mia testimonianza. Sono andato a trovarlo due o tre volte. Tre volte. L'ultima volta il giorno dell'esecuzione. Non ero tenuto ad andarci, ma ci sono andato lo stesso. E non ne avevo certo voglia.
di Matteo Minelli/Ornella Genua

Nota introduttiva: tutte le parti in corsivo, salvo diversa specifica, sono citazioni da “No Country for Old Men” di Cormack McCarthy, 2012 ed. Italiana Einaudi, trad. Martina Testa, alle quali si concatenano considerazioni sul film “The Man That Wasn’t There”, di Joel & Ethan Coen, 2001.

 

            “When I was just a baby

My Mama told me, son

Always be a good boy

Don't ever play with guns

But I shot a man in Reno

Just to watch him die

When I hear that whistle blowin’

hang my head and cry.”

Folsom Prison Blues, JOHNNY CASH

 

“Non dire ciò che è bene,

non dire ciò che è male.

Ognuno ha una ragione

per ammazzare.”

                                                                                                                                                   Africa, LITFIBA

 

Un ragazzo ho mandato alla camera a gas di Huntsville. Uno e uno soltanto. Su mio arresto e mia testimonianza. Sono andato a trovarlo due o tre volte. Tre volte. L'ultima volta il giorno dell'esecuzione. Non ero tenuto ad andarci, ma ci sono andato lo stesso. E non ne avevo certo voglia.

   Amo il Cinema. E detesto andarci da solo.

   Solo una volta è successo. Una e una soltanto. Parlo de “L’uomo che non c’era” dei fratelli Coen, un’opera che rappresenta il vertice della loro riflessione filosofica, tenendo anche conto del fatto che uno dei due è laureato in materia su Ludwig Wittgenstein. Una splendida fotografia, “colorata” da un bianco abbacinante, lo stesso che alla fine avvolgerà per un istante il condannato a morte Billy Bob Thornton, mentre il boia abbassa la leva della scarica che si abbatterà sulla sedia elettrica. “Resti ad aspettare, e arriva il momento, di cavalcare il fulmine […] L'ultima sigaretta, miccia al tabacco, poi il mio trono esploderà.” (Louisiana, LITFIBA)

   La musica scelta per accompagnare questo dead man walking è tratta da una delle ultime “Sonate per pianoforte” di Ludwig Van Beethoven; note dal movimento patetico che a mio parere rappresentano, nel loro incedere accorato, un accompagnamento perfetto ad un discorso sul dolore.

L’uomo che non c’era/Ed Crane non è un criminale come l’Alexander De Large de “Un’arancia a orologeria”, il quale si esaltava con le musiche del “Ludovico Van” per perpetrare le sue gesta violente. Alex è sicuramente più avvicinabile al ragazzo dell’incipit del libro di Cormac McCarthy:

E mi disse che da quando si ricordava aveva sempre avuto in mente di ammazzare qualcuno. Mi disse che se fosse uscito di galera l'avrebbe rifatto daccapo. Disse che lo sapeva che sarebbe andato all'inferno. Proprio così, parole sue. Io non so cosa pensare. Non lo so proprio. Mi pareva di non aver mai visto uno come lui e mi è venuto da chiedermi se magari non era un nuovo tipo di persona.

   L’argomento mi porta a ripensare a un film della sezione “Visti da vicino” dello scorso BFM (Bergamo Film Meeting, marzo 2018), “Lindy Lou, Juror Number 2” di Florent Vassault, storia vera di un’ex giurata che, sospinta da un pungente senso di colpa, intraprende un viaggio lungo il Mississippi, in cerca di ciascuno degli altri undici giurati che insieme a lei avevano condannato a morte un uomo, vent’anni prima.

Li ho guardati mentre lo legavano alla sedia e chiudevano la porta. Il ragazzo poteva avere l'aria un tantino nervosa ma niente di più. Lo sapeva che da lì a un quarto d'ora sarebbe stato all'inferno. Io ci credo. E ci ho pensato tanto. Non era difficile parlare con lui. Mi chiamava sceriffo. Ma io non sapevo cosa dirgli. Cosa si dice a uno che per sua stessa ammissione non ha l'anima? Perché gli si dovrebbe dire qualcosa? Ci ho pensato proprio tanto.

   Il punto converge ad una sola domanda, che a sua volte apre ad altre e rimanda a tematiche Wittgensteiniane: cosa dire?

   Mentre viene accompagnato alla stanza dove lo attende la sedia elettrica, Ed Crane ripensa a quanto è accaduto e si dispiace per il dolore che ha causato; il ragazzo del libro di McCarthy, invece, non mostra alcun segno di pentimento; l’imputato del film del BFM durante il processo, di fronte alla giuria di cui faceva parte Lindy, addirittura non lascia affiorare alcun segno di umanità, né con il linguaggio verbale, né con quello del corpo, senza mostrare così la benché minima emozione (quindi, in un certo senso, un uomo che non c’era). Tempo dopo il verdetto, l’ex giurata decide di provare a entrare in rapporto con il condannato, andando a trovarlo in carcere e intraprendendo uno scambio epistolare, avendo dunque l’occasione di chiedergli perdono per non aver avuto il coraggio di far salire alla mente, per osmosi, quel no che il cuore le aveva suggerito, ma che purtroppo è evaporato.

   E cosa si dice ad uno che, forse, crede di non avere un’anima, visto che usa le pagine della Bibbia per rollarsi le sigarette? Lindy Lou gli dice che secondo lei non commette un grave peccato se prima le ha lette.

   Come è possibile che un giurato avverta l’esigenza profonda di ricevere il perdono da colui che ha contribuito a condannare a morte per omicidio?

But I shot a man in Reno, just to watch him die” (Folsom Prison Blues, JOHNNY CASH)

   È spiazzante l’incontro con l’allora presidente di giuria che non riconosce la grafia del verdetto redatto anni addietro proprio da lui e che tuttavia ricorda la sera in cui, rientrando a casa sfinito, a processo finalmente concluso, si mise a piangere. Colpiscono le immagini di Lindy che ritorna nell’aula del tribunale vuota e sceglie non di sedersi al posto da lei occupato durante il processo, né in uno degli altri posti assegnati ai giurati, ma in un posto qualunque. Poi la mdp inquadra il box della giuria dove uno ad uno, in uno spot randomico, appaiono in sovrimpressione i nomi dei giurati. Va sottolineato: non i volti, non i corpi (altri uomini che non c’erano: presenti sì fisicamente, con i loro pensieri e le loro parole, che hanno avuto il potere di annientare l’esistenza di un essere umano, ma assenti come esseri umani nella loro interezza-integrità*).

“Ma tutto brucia già. Bruciano i deserti dell' umana carità” (Louisiana, LITFIBA)

   Mentre si siede, Billy Bob Thornton riflette su un’ipotesi, vale a dire sulla possibilità che tutto quanto non è stato in grado di comprendere sulla terra acquisisca un senso altrove e pensa alla moglie della cui morte è in un certo senso responsabile. Forse, come dice lui, una volta giunto dall’altra parte, potrà dirle tutte le cose che qui non hanno nome.

“Di ciò di cui non si può parlare, meglio tacere” (Proposizione VII del Tractatus Logicus-Philosophicus, LUDWIG WITTGENSTEIN)

   È quello che accade in maniera ricorrente in quasi tutti gli incontri tra Lindy e gli ex giurati (una dei quali risponde a un messaggio lasciato da Lindy sulla segreteria telefonica lasciando a sua volta un messaggio in cui dice in maniera molto esplicita di non voler essere coinvolta nel progetto del film perché non intende riaprire quel capitolo, evidentemente sofferto, della sua vita). Durante gli scambi di riflessioni tra gli ex giurati i silenzi non mancano, anzi, il protrarsi del silenzio diviene assordante dopo la rilettura a voce alta del verdetto durante l’incontro con l’ex presidente di giuria; sequenza che mette a disagio anche lo spettatore.

   L’assenza di suono, quando deve essere tradotta in immagini, può essere resa o con un nero o con un bianco totale. Ma perché scegliere quando si porta il nome di Joel ed Ethan Coen? La scena finale del loro film, che coincide con il momento immediatamente successivo all’azionamento della leva da parte del boia chiude nel nero totale, dopo il bianco abbacinante (un’epifania di verità?).

   Ricordo che uscendo dalla sala (ora non è più in attività, ma si tratta di un cinema che una volta c’era!) aveva iniziato a nevicare. Procedevo anch’io a mio modo verso un bianco totale. Fui preso dai brividi, ma non  per il freddo, era piuttosto una sensazione di smarrimento interiore che rifletteva lo spaesamento esteriore dato dal bianco: forse proprio quello stesso smarrimento che ha suscitato in Lindy la necessità di ripercorrere una strada per cercare di dare un senso all’assurdità di un sistema cosiddetto “giudiziario” che dovrebbe fare giustizia, ma si basa su una duplice ingiustizia: infatti il più delle volte infligge profonde ferite al genere umano, sia nelle persone dei giurati, sia nelle persone degli imputati, dei quali non è in grado o non intende riconoscere l’umanità spesso a sua volta profondamente ferita.

   Quell’umanità che emerge profonda nel dialogo tra figlio e padre in un altro libro di McCarthy, “The Road”, quando il piccolo avventurandosi in un mondo devastato chiede al padre se loro portano il fuoco.

   “Sì, noi portiamo il fuoco” gli risponde colui che presto morirà.

   Padre e figlio. E un fuoco. Una promessa, un testimone che viene consegnato e tramandato, in una sorta di staffetta in cui la morte lascia qualcosa alla vita, pur nel dolore di una perdita che è nell’ordine delle cose.**

   Ecco allora che la brutalità di un mondo senza più speranza, si appende ad un filo, per sua natura molto esile, vale a dire la promessa di continuare a compiere un gesto che si rinnova nel suo rinascere e questo ci proietta nelle condizioni dei costruttori di cattedrali che iniziavano la loro opera consapevoli che non ne avrebbero visto il compimento, esattamente come il padre che muore lasciando il fuoco al figlio. Ed è a un gesto preciso che McCarthy si riallaccia per insistere sul concetto di promessa: mi riferisco alla parte finale del libro “Non è un paese per vecchi”, quando lo sceriffo stanco e annichilito dalla ferocia dei nuovi tempi, scorge un abbeveratoio scavato a colpi di scalpello:  “Sarà stato lì da cento, duecento anni, dice lo sceriffo. Così, dice, mi è venuto da pensare all’uomo che l’aveva fabbricato. Si era messo lì con una mazza e uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio che sarebbe potuto durare diecimila anni. Ma perché? In che cosa credeva quel tizio?”.

   Il film dei fratelli Coen poneva come asse portante il Principio d’Indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale (ne accenno riportandolo pedissequamente, poiché dubito di averlo compreso appieno), nel momento in cui pretendiamo di misurare contemporaneamente e con estrema esattezza le proprietà che definiscono lo stato di una particella elementare, ad esempio posizione e velocità, già il solo intervento per effettuare la misurazione di una proprietà altera e rende quindi indeterminabile la misurazione di partenza dell’altra proprietà.

   Il concetto viene trasposto sul piano della percezione della realtà dall’avvocato di Ed Crane come segue: “Devi osservare il fenomeno. Ma il semplice guardare, il guardare cambia il fatto. E tu non puoi sapere cosa sia successo nella realtà o cosa sarebbe successo se tu non ci avessi ficcato il tuo grosso naso. Per cui non ha senso chiederci cosa è successo: il semplice guardare cambia il fatto. Si chiama principio di indeterminazione, sembra un'idea bislacca, ma anche Einstein l'ha presa in considerazione. La scienza. La percezione. La realtà. Il dubbio. Il ragionevole dubbio. Sto dicendo che alcune volte più guardi e meno conosci. È un fatto. È provato.”.

   Se ci fermassimo qui ci troveremmo persi in un terreno estremamente arido, ma McCarthy nel finale di “No country for old men”, viene in nostro aiuto travalicando il problema della percezione e dell’indeterminazione della realtà -che pure viene avvertita in tutta la sua crudezza- e ponendo un punto fermo nel non disperare della sfuggevolezza della realtà medesima:“Penso a quel tizio seduto lì, con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. E’ la cosa che mi piacerebbe più di tutte.”.

   Anche il barbiere Ed Crane scorge una possibilità, vale a dire che l’indeterminatezza di quello che avviene nella vita quotidiana abbia un senso. In una scena dai tratti surreali, esce dal carcere a guardare il cielo dove appare un U.F.O. (è frutto solo della sua mente? Si tratta di una proiezione di fuga?). In quel momento, di fronte a quello che è divenuto uno stilema del cinema dei fratelli Coen, ossia la circolarità (il film inizia con una vista dall’alto del movimento circolare della tipica colonnina di un tempo dei barbieri, posta sull’insegna a mo’ di licenza per operare***) Ed Crane pensa alla necessità di dover/poter osservare le cose dall’alto -e soltanto alla fine- per poter sperare di capire il disegno che ogni singolo fatto ha contribuito a comporre: “All'inizio non riuscivo a capire come ci fossi finito; rivedevo questa storia, passo dopo passo, così come ve l'ho raccontata; passo dopo passo, ma non comprendevo il disegno generale. Ora che la fine si avvicina sono felice che una rivista per uomini abbia comprato le mie memorie. Scrivendo, la matassa si dipana, ma ora tutti i brandelli si sono cuciti insieme. È buffo andarsene in questo modo: sai esattamente quando morirai […] Beh, era come osservare un labirinto da lontano: mentre ci sei dentro procedi senza pensare, svolti dove credi di dover svoltare, sbatti il muso in fondo ai vicoli ciechi e vai avanti così. Ma appena te ne allontani, tutte quelle curve e quelle svolte compongono il disegno della tua vita…è difficile da spiegare, ma vederlo nel suo insieme ti procura una sorta di pace.”.

   Disegno inteso come progetto, come direzione.

   Per la direzione penso a quella della carrozza - di cui ci parla McCarthy in “The Road”- dalla quale in un futuro post-atomico dove tutto è deserto, una donna raccoglie ed accoglie il bambino rimasto solo (il “testimone”); per il progetto penso a quello di Lindy che percorre molta strada, sia in senso metaforico che in senso fisico, dal momento in cui sente il bisogno di essere perdonata e iniziare così una vita nuova, ri-generata dal perdono ricevuto, che solo dà la possibilità di perdonare ad altri.

   “La possibilità di vivere comincia nello sguardo degli altri” (MICHEL HOUELLEBECQ)

 

Note

* Per comprendere quanto l’esperienza del processo sia stata per alcuni membri della giuria, quali appunto Lindy e il presidente, logorante, critica e disgregante, va detto che negli stati confederati degli U.S.A. in cui vige la pena di morte, conditio sine qua non per essere scelto come giurato in un processo di tal genere è essere fermo e convinto sostenitore della pena di morte).

** “Deve essere triste morire senza figli” dice Nanni Moretti nel suo film “Bianca” mentre, nella scena finale del film, lo caricano in arresto sul furgone blindato. Vale la pena evidenziare che Ed Crane scopre soltanto dopo la morte della moglie che sarebbe presto diventato padre.

*** Il palo da barbiere, già dal Medioevo, era il segno di chi effettuava servizi medici, in particolar modo i salassi, con il rosso che simboleggiava il sangue, il bianco i bendaggi. Il paziente stringeva il palo per evidenziare le vene alla vista del barbiere, come le cinghie che stringono la testa (ancora un elemento circolare) del nostro non-eroe mentre attende la scarica.