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REVIEWSLE RECENSIONI
17/12/2018
Spain
[Spain Mandala Brush]
Alle atmosfere di un tempo, elusive, raffinate, gonfie di umori malinconici e contigue al jazz, Haden ha sostituito canzoni più rumorose, sperimentali, e di certo ancor più ostiche e meno accomodanti.

Quando uscì The Soul Of Spain (2012) erano passati ben undici anni dal precedente I Believe (2001). Uno iato lunghissimo, durante il quale Josh Haden ha evidentemente riflettuto sulla sua creatura, plasmando lentamente, ma in modo determinante, il suono delle origini, per trasformarlo, disco dopo disco, in qualcosa di diverso.

Se quel nuovo inizio riproponeva la metrica dello slow core degli inizi, con la sola novità dell’introduzione dell’organo hammond, i due lavori successivi, Sargent Place (2014) e Carolina (2016), spostavano decisamente il baricentro del suono: il primo, normalizzava il songwriting, sostituendo alla lentezza esasperata di una musica pregna di sacralità e malinconia, una maggior attenzione alle ritmiche e al groove; il secondo, invece, esplorava, utilizzando una veste quasi cantautoriale, il suono americano, mutuando dalla tradizione persino gli strumenti (slide, violino, banjo, etc.).

Questo Spain Mandala Brush aumenta ulteriormente le distanze da ciò che negli anni ‘90 erano gli Spain: alle atmosfere di un tempo, elusive, raffinate, gonfie di umori malinconici e contigue al jazz, Haden ha sostituito canzoni più rumorose, sperimentali, e di certo ancor più ostiche e meno accomodanti, di quelle, ad esempio, che componevano il capolavoro She Haunts My Dreams (1999). Il nuovo capitolo della discografia del combo californiano è un disco complicato, che necessita di parecchi ascolti per essere assimilato e digerito. Insomma, non sono gli Spain che conoscevamo, a partire dalla voce di Haden, un tempo affabulante, calda, confessionale, e oggi, invece, ispida, puntuta, a tratti perfino sgraziata.

Gli echi del lontano passato sono davvero pochi (Laurel, Clementine su tutte), e il segno della continuità è dato soprattutto da una vena malinconica che sembra inesauribile. Ma se in passato, la narrazione era sussurrata, suggerita, mai completamente esplicita, oggi Haden sembra essersi dimenticato la calligrafia in favore di una scrittura a tratti impulsiva, e a tratti fluente, impetuosa, ai limiti del verboso.

La tensione battente di Maya In The Summer è la fotografia del nuovo corso: una canzone sanguigna, ruvida e disperata come mai lo è stata una canzone degli Spain. Un mood da cui non si discosta la successiva Sugarkane, la voce di Haden che proprio non riesce a trovare pace, i fantasmi di Jason Molina che annaspano nell’incedere strascicato del brano che esplode, poi, in un convulso battere di tamburi e nello stridere acido della chitarra.

Quando parte Rooster Cogburn, lo spostamento rispetto ai predecessori è ancora più evidente: otto minuti di equilibrismi post rock, sempre sul punto di collassare nella voce sfatta di Haden, che richiamano alla mente gli ultimi Talk Talk.

Arriva quasi come un sollievo, quindi, You Bring Me Up, spiraglio di luce attraverso le fessure di un’Americana squadrata che, solo nel finale, esplode nei colori abbaglianti di un inaspettato gospel. Un brano quasi normale, che interrompe per quattro minuti il desiderio di Haden di esplorare suoni spigolosi e di abbandonarsi a un flusso musicale libero da ogni costrizione. In tal senso è splendidamente riuscita la lunga, palpitante Tangerine, in cui a prevalere è l’approccio jammistico marchiato a fuoco dal sax di Matthew De Merritt e dal violino di Petra Haden, sorella di Josh, mentre, la torrenziale God Is Love, unico accenno sonoro all’India evocata nel titolo e il brano più sperimentale del lotto, si perde per quasi un quarto d’ora in una sarabanda strumentale ecessiva, indigesta e francamente fine a se stessa.

Poco male: la successiva The Coming Of The Lord, con una splendida melodia giocata sul contrappunto fra la chitarra di Kenny Lion e i fiati di David Ralicke, rimette in careggiata un disco ostico, a tratti perfino faticoso, ma comunque ispirato e ricco di idee.

Josh Haden sta cambiando decisamente il volto degli Spain, e questo desiderio di cambiamento rispetto a un suono quanto mai identificativo, regala nuova linfa creativa a un progetto che, pur avendo sempre mantenuto alti standard qualitativi, ha oggi il merito di rinnovarsi ed aprirsi a nuove strade. Di Sicuro, papà Charlie, da lassù, apprezzerà.