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REVIEWSLE RECENSIONI
24/06/2022
Kurt Vile
(Watch my moves)
Un gran bel disco, scritto bene, ma che si esplica nella sua semplice bontà solo dopo qualche ascolto.

Una punta di delusione la devo premettere. Eppure si tratta davvero di un gran bel disco, scritto bene. Devo quindi ammettere che il country e la sua costante vena compositiva e di arrangiamento, il timbro con cui ho conosciuto Kurt Vile me ne avevano fatto innamorare e questa nuova versione leggermente meno ispirata, a tratti precaria, quasi fosse un tentativo di liberarsi di se stesso per tornare in gran parte del disco nella sicurezza del suo genere mi aveva lasciato spiazzato. Questo è quello che ho pensato ad un primo ascolto. Poi però la musica ha fermentato, si è presa possesso dei miei pensieri ed i picchi alti di questo disco hanno sovrastato le poche incertezze.

Classe 1980, nato a Philadelphia, Pennsylvania, Kurt Vile segue le orme del padre amante del bluegrass e ne cavalca l’istinto rurale avvicinandosi da subito al banjo - di fatto il suo primo strumento - con cui ha realizzato le prime composizioni, che rispecchiavano i gusti e gli ascolti incrociati di ciò che passava in casa sua, i Pavement su tutti.

Io l’ho conosciuto con Wakin on a pretty daze, approfondito ed apprezzato a fondo con Believe I’m goin Down, e mollato la presa quando ho sentito che la vena compositiva non emergeva in seguito come nei precedenti. Mi ci riavvicino quindi con questo nuovo (Watch my moves) e navigo nell’incertezza data dal non sapere come descrivervelo in maniera omogenea, complice la premessa iniziale.

Il disco scorre benissimo e suona come fosse prodotto in casa, con le canzoni adagiate su una monotona drum machine. Salvo origliare gli oscillamenti di metronomo di una cosa suonata (a meno che non sia scritta oscillante la batteria, ma non pare questo il caso) alla fine si respira aria di casa, di gente che suona, di finzione che si intreccia al sudore del country, del polso che si appoggia sul ponte e muta le corde, delle parole che si susseguono senza troppi eccesivi obblighi. L’atmosfera è pericolosamente ammaliante.

Se si esclude l’iniziale “Goin on a Plane Today”, un’interessante fusione con l’unico Syd, se mai il nostro Roger “Sydney” Barrett ce lo avesse concesso, siamo di fronte ad un disco con una chiara identità sonora. Dopo il primo esperimento interessante, anche troppo straniante per cominciare un album, si susseguono tutte canzoni in tempo downbeat, posate. Si respira “Harvest” con la piacevolezza di qualche suono nuovo che ai tempi non esisteva, eppure non c’è nessun sacrilegio, anzi, siamo nel pieno rispetto dei ruoli e della propria espressività. Più lo sento, più penso che questo disco mi piace, perché gli arrangiamenti sono sottili, ramificati, e quando le cose hanno una naturale lentezza nei movimenti musicali, ne scaturisce una conseguente fase in più per poterli fare propri, in una vera e propria sintesi.

“Mount Airy Hill (Way Gone)” procede per la sua strada: poetica, solitaria, ma certa di sé; mentre “Palace of OKV in Reverse” ha dei suoni ben mescolati, sempre con arpeggi di chitarra stratificati all’inverosimile dietro ad altri arrangiamenti slide chitarristici, tenuti solidi da un basso perentorio e da una batteria che potrebbe scandire il ticchettio di un orologio e farsi trovare a tempo. “Hey like a child” emerge invece per la scrittura chitarristica in un territorio meno country, cosa che la rende interessante e diversa dalle altre, quasi soft punk, ma risulta forse tirata troppo per le lunghe.

“Jesus on a Wire” rimette in piedi i pilastri che rendono Kurt Vile unico ed il suono si sposta su qualcosa di leggermente più brillante, rimandandomi con tutta la calma a Into the Wild, e me lo assaporo capendo che no, è un’altra la pasta sonora, ma il rimando è stato comunque piacevole. Qua si è più leggeri nei contenuti e viceversa imbastiti da qualcosa, forse il ritmo, che trattiene dal lasciarsi andare alle immagini che scorrerebbero libere in testa.

“Fo Sho” parte con dei suoni algoritmici e morbidi, che confermano quanto qualcosa sia cambiato in una direzione meno sicura; lo stato di grazia della prima cinquina di canzoni viene meno.

Con la successiva “Cool Water” sono ben disposto visto il titolo che rimanda al capolavoro mai completato Smile! di Brian Wilson e Beach Boys, ma in realtà c’è poco di ricordabile di questi 5 minuti eccetto un’eterna sensazione di attesa. Penso che in fondo questo sia il country ma no, non è esattamente questo il punto, perché quando è in equilibrio il country ti tiene sospeso e il benessere parla al posto tuo.

Su “Chazzy Don’t Mind” si torna in balia della scrittura, del suo dondolio e del suo potere innegabile, a cui è meraviglioso sottostare. Un tre quarti ammaliante, sempre sul punto di finire, ad ogni giro, ma che ogni volta riprende e trasporta in un mare appena mosso, che sembra imprevedibile ma che in realtà è costante ed ammaestrabile.

Il frammento strumentale “(shiny things)” trasporta nel fast “Say the Word”, dove emergono i vapori di Tom Petty e dell’immancabile Neil Young. È “Harvest” cantato da Lou Reed mentre imita Neil Young, per essere precisi e chiudere con un sorriso il gioco dei rimandi. Si arriva quindi alla bella “Wages of Sin(cover di una ottake di Born In The USA di Bruce Springsteen), un vero e proprio mantra, il motivo che ti trascina nel mood dell’album intero, forse la più riuscita in quel senso. Quindi se Neil Young ha “Words”, se i Velvet Underground & Nico hanno “Venus in Furs”, se i The Doors hanno “The End”, Kurt Vile ha “Wages of Sin”. Ed è bella, incredibilmente bella, mano a mano che prosegue nei suoi 7 minuti e trenta che passano senza la minima ombra di affaticamento. Dimostra come la sua forza sia la necessità della ripetizione dell’idea e del rafforzamento, perché solo in questa maniera arriva chiaramente il messaggio totale; un giro non bastava, ne servivano una trentina. La perla incontrastata dell’album, che si affianca al quintetto iniziale e a “Chazzy Don’t Mind”.

“Kurt Runner” è uno strumentale ipnotico che mostra la strada verso l’uscita e porta diretti a “Shuffed Leopard”. Costellata da questi “shh” che scivolano dallo “show” ad una “she” che diventa il soggetto del testo, vanno a fare il solletico al “shoot me” di “Come Together”. Lunga, fino a dipingere nel dettaglio un quadro già abbondantemente rifinito, salvo aggiungere un particolare sintetico che forse ancora non c’era stato. Penso a Brian Eno e lo sento spesso arieggiare ultimamente in molti dischi.

Negli ascolti successivi ho ancora più capito la semplice bontà di questo disco, la riuscita di un suono che esce e che mette il buonumore.  Ho appiattito il giudizio globale e distante tra gli estremi in favore di una chiara propensione alla positività. I picchi di “Mount Airy Hill (Way Gone)”, di “Flyin (like a fast train)”, “Palace of OKV in Reverse”, “Like Exploding Stones”, “Chazzy Don’t mind” e il mantra “Wages of Sin” valgono ampiamente il prezzo del biglietto. Non solo, preparano talmente bene il terreno sotto i piedi che ben dispongono all’ascolto di qualcosa anche di più terreno e meno ispirato, tanto che il solo suono comune riesce a giovare e far sembrare giusti i picchi minori dell’album.

Ed alla fine rifletto semplicemente sul fatto che abbia bisogno della musica di Kurt Vile e che sia importante ascoltarlo ed essere trasportato in quel posto indefinito in cui inesorabilmente mi prende, trascina e mette a sedere.