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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
15/11/2017
Fugazi
13 songs
Laddove il punk-hardcore europeo ricerca il tono aspro, ma cantabile, politicizzato, ma cameratesco, quello americano, al di là delle differenze di talento interne, suona sicuramente più disperato, problematico e, osiamo dirlo, profondamente asociale nella sua ribellione politica.
di Vlad Tepes

I Fugazi (Ian McKey, voce, chitarra; Guy Picciotto, voce, chitarra; Joe Lally, basso; Brendan Canty, batteria) nacquero dalla comunanza artistica del grande McKey (già nei Minor Threat, crema dell’hardcore di Washington DC) e di due membri dei Rites Of Spring (Lally e Picciotto); essi rappresentarono, forse, uno dei migliori lasciti di quella stagione: di essa conservarono la teatralità vocale, ma se ne distinsero per la parte compositiva, sempre in bilico fra irruenza tradizionale, davvero rock ’n’ roll, e destrutturazione proprio di quell’impeto sorgivo – destrutturazione attuata per mezzo di brevi riff, staccati, indugi, riprese brucianti e memorabili duetti voce-chitarra; una complessità così ben nascosta da dare l’impressione d’una serie di brani lineari (e dal fascino inspiegabile).

Basta ascoltare il capolavoro “Waiting Room” da 13 Songs (somma di due EP, l'omonimo del 1990 e Margin Walker dell'anno precedente): il giro di basso iniziale, la grattugia delle chitarre, lo stop inopinato, la ripartenza, il tono recitativo di McKey, il controcanto di Picciotto, son tutti espedienti per poter liberare “Sitting outside town/Everybody’s always down”. Tutto in tre minuti scarsi; una partitura complessa e, al contempo, un incedere irresistibile. Laddove il punk-hardcore europeo ricerca il tono aspro, ma cantabile, politicizzato, ma cameratesco, quello americano, al di là delle differenze di talento interne, suona sicuramente più disperato, problematico e, osiamo dirlo, profondamente asociale nella sua ribellione politica. Nonostante alcune pulsioni comunitarie, tipiche dei movimenti spontanei, l'interezza del movimento hardcore presenta personaggi e piccoli gruppi isolati contro il Sistema e refrattari ad istanze socialiste genericamente intese; questa considerazione può mostrarsi ingenerosa verso alcune formazioni (e verso i Fugazi in particolare), ma è difficile negare che la rivolta americana presenti sempre individui borderline o singoli personaggi, e mai partiti o ideologie unificanti; aneliti comuni che il Sistema aborre e scoraggia attraverso compagne oblique (l'anticomunismo, il culto della bandiera, la paura del terrorismo).

La Thatcher (e Reagan) sentenziarono che la società non esiste; Greenspan (memore di Hobbes) teorizzò uno sviluppo basato sul consumatore solo contro tutti, indaffarato per la sopravvivenza ed immemore della solidarietà; Ayn Rand auspicò esplicitamente (ne La fonte meravigliosa) una storia progressiva fondata esclusivamente dalle grandi personalità creative, impensabili in uno stato socialista (o democratico) che tutto livella al basso. Questa tendenza all'individualismo spiega la caducità delle correnti rivoluzionarie (peraltro falciate dagli assassinii politici), l'autodistruttività di gran parte della controcultura, l'irrilevanza dei movimenti sociali americani; dal punto di vista musicale anche un inno come “If The Kids Are United”  è, in media, impensabile. Negli USA anche il tifo è individuale (e debitamente interrotto dalla pubblicità). L’hanno spacciato per civiltà: che sia torpore indotto?