È un dato di fatto che gli steccati di genere stiano scomparendo o siano già del tutto scomparsi. Qualcuno dice che sia un bene, altri gridano allo scandalo, argomentando che i tempi in cui ci si menava a sangue per sostenere la superiorità o l’esclusivo diritto all’esistenza di questa o di quella corrente artistica, fossero più sani e genuini. Contenti loro. Per quanto mi riguarda, è da tempo che considero la bellezza come un qualcosa che ha cittadinanza universale: la trovi un po' dappertutto, l’importante è saperla cercare e acquisire quel minimo di strumenti critici che ti permettano di comprendere linguaggi magari distanti da quelli a cui si è sempre stati abituati.
Per tagliare corto, non uccidetemi se dico che il disco di Francesca Michielin mi è piaciuto un sacco. Anzi, vado oltre e dichiaro che, in questo 2018 appena iniziato, è al momento l’album che sto ascoltando di più e con maggior piacere, in una sorta di loop continuo che lo rende ogni volta migliore.
Si può sopravvivere ad X Factor, dunque. Non è proprio del tutto vero che la partecipazione ad un programma del genere rappresenti il modo migliore per NON iniziare una carriera. Oddio, la ragazza in questione, arrivata in gara quando era ancora un’adolescente timida ma allo stesso tempo ben consapevole di quello che avrebbe voluto fare, ha rischiato seriamente di essere bruciata. Tanto mi stava simpatica come concorrente (che poi quell’anno già non lo seguivo più, sapevo quello che mi raccontavano e guardavo cose sparse su YouTube), quanto poco mi sono entusiasmato per i suoi primi passi discografici (“di20are” era un po' meglio di “Riflessi di me” ma insomma): il solito Pop da classifica in salsa italica, canzoni prive di spessore e talvolta anche scritte male, un fidarsi forse eccessivo di autori e produttori esterni senza dare troppo spazio ad un talento che invece c’era e avrebbe avuto bisogno di essere lasciato libero di esprimersi.
Alla fine qualcosa è successo: “2640” (che è l’altezza di Bogotà e che rappresenta quel che in fondo è la tematica centrale del disco, in bilico tra ricerca di sé ed esigenza di fuga dal reale) Francesca se l’è scritto da sola, con qualche prezioso contributo da parte degli autori che più vanno per la maggiore oggi: Dario Faini, Calcutta e Tommaso Paradiso, oltre alla presenza fissa di Michele Canova in veste di produttore. Ma non sono figure ingombranti, direi: piuttosto, sono serviti a valorizzare un lotto di canzoni che per la prima volta sanno dire quel che devono dire, utilizzano un linguaggio che sì, potrebbe anche essere sempre quello, rotondo e plasticoso, del Pop italiano che vuole sembrare esterofilo ma che al servizio di canzoni di sostanza come queste non risulta per nulla ammiccante o pretestuoso.
Bogotà è distante, esotica, allegra e colorata. È il desiderio di fuga di chi vuole mollare la noia del quotidiano per rifugiarsi “2640 metri più vicino alle stelle” e pensare che la vita sia così, un’eterna corsa a cambiare per sentirsi meglio. Francesca, a quanto pare, ha provato a soppesarla, questa opzione, ma ha deciso piuttosto in fretta che non era quella valida: la vita è, in primo luogo, fare i conti con le circostanze di tutti i giorni, nella convinzione che la felicità, se esiste, te la puoi tranquillamente trovare sotto casa.
E dunque in questi tredici pezzi ha deciso di raccontare se stessa, di mettersi a nudo come mai aveva fatto, utilizzando un linguaggio diretto ma ben lontano da una certa autocompiaciuta immediatezza di tanto “Indie” nostrano.
Confessare al proprio padre di sentirsi in colpa per le volte in cui gli ha risposto male, pensando a tutto l’amore che lui le ha sempre portato, non è una cosa così strana ma è difficile trovare quel candore che ha lei per cantarlo senza sembrare ridicola. Anche dedicare un brano (lo stesso di cui stiamo parlando) ad un pilota di Formula 1, passione che ha sin da ragazzina, riuscendo a non apparire sdolcinata e anzi, immedesimandosi in maniera notevole con la sua interiorità, non è affatto cosa da poco.
C'è dell’altro, ovviamente: in “Bolivia” canta quel che si diceva prima, che non occorre viaggiare in capo al mondo per trovare qualcosa e che l’illusione di essere liberi da tutto e da tutti, di non avere bisogno di niente e di nessuno è, appunto, un’illusione; nella traccia di apertura, “Comunicare”, si mette a nudo senza troppi problemi, fornendo una sorta di presentazione di se stessa che il linguaggio Hip Pop qui utilizzato favorisce: ci sono le parole, sì, ma c'è assieme la consapevolezza che queste, pur importanti, non sono tutto.
Abbiamo poi l’atmosfera vagamente surrealista di “Tropicale”, la metafora calcistica de “La serie B”, la parziale concessione alla nostalgia di “Noleggiami ancora un film”. E poi, ovviamente, le storie d’amore: presentate sia nel loro lato tenero (“Non abito al mare”) sia in quello problematico (“Vulcano”, “Scusa se non ho gli occhi azzurri”) senza però mai cadere nei cliché tipici di chi scrive di questo tema, soprattutto in Italia.
Da questo punto di vista, mi spiace ma uno come Calcutta si rivela un autore di tutto rispetto. Lo avevamo massacrato per “Mainstream” (io a dir la verità no, quel disco mi è sempre piaciuto, pur considerandolo lontano dalle mie frequentazioni abituali) ma in pochi si erano resi conto che al di là del suo essere impresentabile sul palco, le idee le aveva eccome. Al servizio di un’altra voce, di un’altra personalità, le cose funzionano molto meglio, tanto che “Io non abito al mare” è un pezzo che potrei definire clamoroso, se non avessi paura di essere preso per matto. È un brano dove comunque tutto funziona: musicalmente (basti la melodia perfettamente cesellata del ritornello a darvene un’idea) ma anche nell’urgenza comunicativa del testo, incentrato sulla difficoltà di trovare le parole giuste per raccontare alla persona amata quel che si ha nel cuore. Modalità millenial tipica di Calcutta (“Queste cose vorrei dirtele all’orecchio, mentre urlano e mi spingono a un concerto, gridarle dentro a un bosco, nel vento, per vedere se mi stai ascoltando”) ma niente affatto banale o fuori luogo.
Un disco conciso, che dura 45 minuti scarsi e che contiene 13 canzoni, nessuna delle quali può essere considerata un riempitivo. Certo, “E se c’era”, firmata da Tommaso Paradiso, è forse un pelo sotto le altre, non fosse anche per una smaccata imitazione dei Pooh nella costruzione armonica e nei richiami testuali ma non stiamo comunque parlando di un pezzo brutto. Anche “Lava”, forse, la potevamo evitare: è un gradevole RnB molto spinto e con un ritornello centratissimo ma, sarà forse colpa della scelta superflua di cantare in inglese (peraltro lo fa benissimo come sempre ma non è questo il punto) assomiglia più ad una modesta imitazione dell’RnB di Oltremanica, oltretutto senza la grandezza compositiva e di produzione dei suoi più grandi esponenti.
Il resto però è di primissimo livello: persino “Comunicare”, che gioca la carta dell’Hip Pop in apertura e che per questo avevo battezzato come ruffiana dopo un paio di ascolti, si è rivelata funzionale al discorso che viene portato avanti in seguito. Un discorso fatto di arrangiamenti essenziali, dove elettronica e strumenti acustici si fondono con naturalezza e dove la produzione rimane sempre molto discreta, non straborda mai, con un uso dei campionamenti sobrio ed essenziale, costantemente al servizio dei brani.
È un disco Pop ma non sono molti i momenti in cui si va di cassa dritta e ci si scatena nelle danze: indubbiamente “Vulcano” e “Tropicale” (non a caso scelti come singoli) vanno in questa direzione, con le loro atmosfere vagamente latine e un gran lavoro di percussioni; la stessa cosa, anche se in modo diverso, si può dire di “Due galassie”, dotata di un ritornello davvero vivace e ammiccante e di “Tapioca”, che campiona una melodia tradizionale ecuadoriana e con l’aiuto di Cosmo la trasforma in una scatenata festa colorata.
Il resto viaggia su coordinate più leggere, a tratti quasi malinconiche ma sempre con una profondità che impedisce di scadere nel banale.
E poi la voce: ben lungi dall’avere la necessità di farci sentire quanto è brava, Francesca dà risalto soprattutto all’interpretazione, con un’espressività e una consapevolezza che non sono in molti a poter vantare oggi in Italia.
Non scomoderò i paragoni con Lorde fatti da una parte della stampa specializzata: non hanno molto senso di esistere, visto che le due artiste hanno approcci radicalmente diversi, pur partendo da una base comune. Eppure, forse sarà grazie a “2640” che la scena musicale italiana potrà finalmente affrancarsi da un certo provincialismo per guardare a testa alta le grandi produzioni internazionali, senza per questo rinunciare alla propria identità.
Ditemi dietro quello che volete ma non me ne vergogno: questo disco è una bomba.